TRUST E VINCOLI
DI DESTINAZIONE
EX ART. 2645-TER C.C.
NEI RAPPORTI PATRIMONIALI TRA CONIUGI
E NEGLI ACCORDI IN SEDE
DI SEPARAZIONE E DIVORZIO
1. I vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c.
Considerazioni generali sul nuovo istituto.
5. Trust e negozio
fiduciario.
8. Il tipo di meritevolezza di tutela
degli interessi da realizzarsi con l’art. 2645-ter c.c.
11. Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e fondo patrimoniale.
12. Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e convenzioni matrimoniali.
15. Vincoli di destinazione e crisi
coniugale: i rapporti con il trust.
1. I vincoli
di destinazione ex art. 2645-ter c.c. Considerazioni generali sul nuovo istituto.
L’art. 39-novies della l. 23 febbraio 2006, n. 51, di conversione
con modifiche del d.l. 30
dicembre 2005, n. 273 («Recante definizione e proroga di termini,
nonché conseguenti disposizioni urgenti. Proroga di termini relativi
all’esercizio di deleghe legislative»), ha introdotto nel nostro
ordinamento l’art. 2645-ter
c.c., volto a consentire «atti di destinazione per la
realizzazione di interessi meritevoli di tutela».
«Gli atti in forma pubblica
con cui beni immobili
o beni mobili iscritti in pubblici
registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata
della vita della
persona fisica beneficiaria,
alla realizzazione di interessi
meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi
dell’articolo 1322,
secondo comma, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi
può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la
vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere
impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono
costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo
2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo». |
Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter: http://judicium.it/news/ins_08_04_06/Gazzoni,%20nuovi%20saggi.html Oberto, Atti di
destinazione (art. 2645-ter c.c.) e
trust: analogie e differenze: http://giacomooberto.com/2645ter/2645ter_e_trust.htm
|
Chiunque s’accinga a trattare – anche solo
marginalmente e (come nel caso di
specie) senza alcuna pretesa di completezza – il tema degli atti di
destinazione ai sensi dell’art. 2645-ter
c.c. non può fare a meno di esordire rivolgendo una severa critica alla tecnica legislativa adottata
dalla novella. Una riforma che, come già è stato osservato in
dottrina, la nostra cultura giuridica non merita e che, oltre a costituire il punto più basso di un drafting normativo ispirato sempre
più a sciatteria e ignoranza dei principi fondamentali, sembra
dischiudere le porte ad una «terza fase» dei rapporti tra normativa
di fattispecie e normativa pubblicitaria.
Dopo una prima «età dell’oro»
(almeno tale sembra, agli osservatori di questo oscuro presente!), nella quale
il codice disciplinava, da un lato, gli istituti concernenti le diverse materie
nei vari libri di rispettiva competenza e forniva poi le regole pubblicitarie
nel titolo primo del libro sesto, venne un’ «età del
ferro», nella quale alla creazione di nuovi istituti sostanziali non
corrispondeva una (o corrispondeva una non adeguata) disciplina pubblicitaria:
le note e tormentate vicende della pubblicità dei regimi patrimoniali della
famiglia, così come riformata nel 1975, e del diritto di abitazione
sulla casa familiare sono quanto mai emblematiche al riguardo. Infine, ecco
sopraggiungere una «terza età» (che, per rispetto nei
confronti del lettore, non qualificheremo ulteriormente), nella quale il
legislatore fornisce direttamente la disciplina pubblicitaria di istituti
che… si è dimenticato di disciplinare (o, per lo meno, di
disciplinare in maniera minimamente adeguata e nella sede appropriata)!
Risponde quindi, forse, a verità la
constatazione (Gazzoni) secondo cui l’art. 2645-ter c.c. è,
«prima ancora che
norma sulla pubblicità, e quindi sugli effetti, norma sulla fattispecie, che avrebbe
meritato dunque, previa scissione, di figurare in un diverso contesto, di
disciplina sostanziale».
Ma la
fattispecie (e una fattispecie di tanto rilievo teorico e pratico!) è
così male abbozzata da suscitare immediatamente un’istintiva,
viscerale, simpatia per una tesi
iconoclasta, quale
quella affacciata dalla prima pronunzia di merito contenente (ancorché
in obiter) un espresso richiamo alla
novella: l’idea, cioè, secondo cui l’art. 2645-ter c.c. non introdurrebbe affatto nel nostro ordinamento un nuovo
tipo di negozio di destinazione, ma soltanto «un particolare tipo di
effetto negoziale, quello di destinazione (…) accessorio rispetto
agli altri effetti di un negozio tipico o atipico cui può
accompagnarsi». La norma in esame non conterrebbe dunque alcun indice da
cui desumere l’avvenuta creazione di una nuova figura negoziale, non essendone
chiara né la natura unilaterale o bilaterale, né il carattere
oneroso o gratuito, né la presenza di effetti traslativi o obbligatori.
Cfr. Trib. Trieste, 7 aprile 2006,
in Italia Oggi, 20 aprile 2006, p.
52; in Trusts att. fid., 2006, p.
417 ss.; il provvedimento è altresì disponibile al seguente
indirizzo web: http://www.filodiritto.com/index.php?azione=visualizza&iddoc=230. |
Se è vero, però, che la formulazione
della norma non é felice né precisa, ciò non sembra
sufficiente a consentire all’interprete di ignorare le tracce di disciplina
sostanziale (dalla
regola in tema di oggetto,
a quelle sulla forma,
sulla durata, sulla
meritevolezza degli
interessi, sulla legittimazione
ad agire, sull’impiego dei beni e dei frutti
e sui rapporti con i creditori)
in essa disseminate dal legislatore, sì da obliterarne l’evidente
intento di delineare, sia pure in modo tanto rozzo, i contorni di un nuovo
istituto giuridico.
2. Brevi considerazioni (e persistenti dubbi)
sull’ammissibilità del trust interno. Il rilievo meramente
internazionalprivatistico della Convenzione de L’Aja.
Se quanto sopra è vero, si pone dunque il
problema di raffrontare
tale nuova figura negoziale con l’istituto che sembra, a tutta prima, ad essa più affine, vale a dire con
il trust, tanto più che proprio in questa
direzione sembra puntare la storia della genesi di questo malriuscito scampolo di prosa
legislativa.
In questo senso depone,
invero, il fatto che la terminologia pare ispirata ad alcune (peraltro ben
più ponderate) proposte
di legge della XIV legislatura, che,
sotto il titolo, rispettivamente,
·
«Disciplina della destinazione di beni in favore di
soggetti portatori di gravi handicap per
favorirne l’autosufficienza» (cfr. la proposta
contrassegnata dal N. 3972, presentata alla Camera dei Deputati il 14
maggio 2003) e
·
«Norme in
materia di trust a favore di soggetti portatori di handicap» (cfr. la proposta
contrassegnata dal N. 2733, presentata alla Camera dei Deputati il 10
maggio 2002)
, miravano ad
introdurre, a tutela delle persone disabili, la possibilità di dar luogo
ad un vincolo assai simile a quello che si attua negli ordinamenti di common law con il trust, ma allo stesso tempo coerente con il nostro sistema
civilistico e fiscale e, quindi, di più immediata e agevole
fruibilità per i soggetti interessati.
Sono del resto ormai più che noti i problemi
posti dai rapporti con il disposto dell’art. 2740 c.c., con il principio del numerus clausus dei diritti
reali, con quello della tassatività delle ipotesi in cui è
consentito creare enti
dotati di autonomia
patrimoniale, con
quello della tassatività
delle fattispecie soggette a trascrizione,
o al profilo di un’eventuale antiteticità rispetto all’art. 2744 c.c., in relazione
alla possibilità di costituire, tramite trust, nuovi meccanismi
di garanzia, alla
potenziale frizione con i principi del nostro sistema successorio, pur nell’àmbito
delle clausole c.d. di salvaguardia di cui agli artt. 15 e ss. della
Convenzione: si pensi, in particolare, al divieto dei patti successori e di sostituzione fedecommissaria, all’inapponibilità
di pesi e condizioni sulla legittima e, più in generale, alle norme a
tutela della successione necessaria.
Questi temi hanno, come noto, scatenato furibondi dibattiti, sui quali
– attesa anche la sconfinata quantità di contributi al riguardo
– non è possibile in questa sede soffermarsi compiutamente. La
controversia ha avuto una grande risonanza anche nel web:
molti sono ormai gli studi ed i contributi disponibili online sul tema, mentre alcuni siti sono stati addirittura
interamente dedicati all’argomento del trust in Italia.
Il
principale è, come noto, quello dell’associazione «Il
trust in Italia», disponibile al sito web seguente: http://www.il-trust-in-italia.it.
Per ulteriori ragguagli si fa rinvio a Oberto,
Il trust familiare, dal 10 giugno 2005 disponibile al seguente indirizzo web: http://giacomooberto.com/milano11giugno2005trust/relazionemilano.htm;
Id., Trust e autonomia negoziale nella famiglia, in Fam. dir., 2004, p. 201 ss., 310 ss. |
Sarà sufficiente rammentare sommariamente in
questa sede che la costituzione nel nostro ordinamento di un trust, pur
in assenza di un qualsiasi obiettivo elemento di estraneità, appare
immaginabile solo a condizione che si fornisca alla convenzione de L’Aja
del 1985, ratificata con l. 16 ottobre 1989, n. 364 (entrata in vigore il
1° gennaio 1992) una lettura che ne evidenzi il carattere di regola non
già di conflitto,
bensì di diritto
interno,
applicabile anche ai casi in cui non siano prospettabili collisioni tra diversi
ordinamenti.
Il
relativo testo (francese) è disponibile all’indirizzo web
seguente: http://hcch.e-vision.nl/index_fr.php?act=conventions.text&cid=59 Il
testo italiano è disponibile al sito seguente: |
Ma proprio questa conclusione appare difficilmente
condivisibile. Per comprendere appieno il carattere internazionale della Convenzione de L’Aja
occorre porre mente ai seguenti rilievi. Innanzi tutto essa è nata in seno alla Conférence de La Haye de droit international privé, cioè
di un’organizzazione intergovernamentale che «a pour but de
travailler à l’unification progressive des règles de droit
international privé» (Art. 1 del relativo statuto).
Cfr. la pagina web seguente: http://www.hcch.net/index_fr.php?act=text.display&tid=4. |
Al
riguardo occorre tenere presente che lo stesso rappresentante dell’Italia in seno alla commissione che
diede vita alla Convenzione non ha avuto esitazioni ad ammettere che tale
Convenzione «rimane
una convenzione in
tema di conflitti di leggi e non ha affatto
inteso trasformarsi in una convenzione di diritto uniforme». Presupposto
necessario per l’applicazione della Convenzione sarà dunque la
presenza, nella fattispecie, di elementi estranei al sistema italiano.
I lavori preparatori della
Convenzione rendono evidente, del resto, come l’intenzione dei redattori
non sia mai stata quella di apprestare norme di diritto materiale uniforme per
paesi che, come il nostro, non conoscevano e non conoscono l’istituto del
trust. Così alle obiezioni
sollevabili da parte di quegli ordinamenti nei quali si potrebbe temere
«que les principes de leur système juridique ne soient
ébranlés par l’intrusion d’une institution
étrangère quelque peu inquiétante» risponde esplicitamente
il rapport explicatif lapidariamente chiarendo
«qu’il
n’a jamais été question d’introduire le trust dans
les pays de civil law, mais
simplement de fournir à leurs juges les instruments propres à
appréhender cette figure juridique». Ed è proprio
qui, continua il rapport explicatif,
che risiede l’interesse della Convenzione per gli Stati che non conoscono
il trust: «L’institution
n’étant pas prévue par leur droit matériel, ils ne
possèdent pas non plus de règles de droit international
privé qui puissent la régir et ils en sont réduits à
chercher laborieusement à faire entrer les éléments du
trust dans leurs propres concepts. Au contraire, la Convention met à
disposition des règles de conflit de lois relatives au trust ; puis
elle indique en quoi doit consister la reconnaissance du trust, mais aussi les
limites de cette reconnaissance».
Cfr., testualmente, von Overbeck, Rapport
explicatif sur la Convention de La Haye du premier juillet 1985 relative
à la loi applicable au trust et à sa reconnaissance, n. 14
(il documento è disponibile in formato .pdf all’indirizzo web
seguente: http://www.hcch.net/index_fr.php?act=publications.details&pid=2949&dtid=3) |
Ulteriore conferma di quanto sopra viene dalla
comparazione con esperienze straniere di paesi di civil law. Si pensi al fatto che la Francia, dopo aver sottoscritto la Convenzione de L’Aja il 26
novembre 1991, si è ben guardata dal ratificarla prima di dotarsi di uno strumento
legislativo nazionale che assicuri il coordinamento tra i tratti essenziali
dell’istituto di common law ed
i principi fondamentali del diritto interno. Ciò è proprio quanto
è avvenuto con la recente
legge (19
febbraio 2007) sulla fiducie, che ha
peraltro dato luogo ad un istituto
assai diverso dal trust, per lo meno da come tale istituto è inteso da
noi.
Testo
reperibile al sito http://www.senat.fr/index.html,
digitando la parola fiducie nella
finestra «recherche sur le site». |
3. Segue. Trust interno e
Convenzione de L’Aja: alcune schematiche considerazioni sulla legge
regolatrice.
E’ noto che, ai sensi
dell’art. 6
della Convenzione de L’Aja, il trust è regolato dalla legge scelta dal costituente. La scelta
deve essere espressa, oppure risultare dalle disposizioni dell’atto che
costituisce il trust o portandone la
prova, interpretata, se necessario, avvalendosi delle circostanze del caso.
Qualora la legge scelta dal costituente non preveda l’istituzione del trust o la categoria del trust in questione, tale scelta non
avrà valore e verrà applicata la legge di cui all’articolo
7. Chi scrive ha già avuto modo di chiarire che detta disposizione non comporta necessariamente il
riconoscimento della libertà di scelta di una legge straniera in difetto
di elementi di internazionalità della fattispecie, ma può interpretarsi,
invece, nel senso che detta libertà di scelta può esplicarsi nei
confronti di una legge di un ordinamento con il quale la fattispecie, pur
munita di oggettivi elementi di internazionalità, non presenti alcun
collegamento.
Del resto,
proprio dall’ambito
del diritto internazionale privato, da cui la
Convenzione de L’Aja proviene, sembra potersi estrapolare la regola
generale che fa divieto
ai privati di scegliere
a loro arbitrio la legge che
disciplinerà i loro rapporti, in assenza di un elemento di
estraneità, che pertanto non può essere costituito dalla sola
legge dalle stesse parti indicata.
Come
rilevato in dottrina, l’ambito di applicazione del diritto internazionale
privato va circoscritto alle fattispecie che presentino elementi di internazionalità
sulla base di un giudizio ex ante,
soltanto a seguito del quale, accertata la ricorrenza del carattere
internazionale della fattispecie, può applicarsi la normativa di diritto
internazionale privato e, quindi la norma che legittima la facoltà di
scelta di una legge straniera. Ritenere, invece, che la legge straniera scelta dalle parti possa da sola fungere da elemento di internazionalità
che giustifica l’applicazione della normativa di diritto internazionale
privato significa operare una inversione concettuale
contraria ai principi della logica.
Al riguardo
va anche detto che, se è vero che la Convenzione
di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali,
siglata il 19 giugno 1980 e ratificata con legge 18 dicembre 1984, n. 975,
entrata definitivamente in vigore il 1° aprile 1991, stabilisce, all’art. 3, che
«il contratto è regolato dalla legge scelta dalle parti»,
è altrettanto vero che l’art. 1 della citata Convenzione delimita espressamente
il campo d’applicazione della medesima alle sole «obbligazioni contrattuali nelle
situazioni che implicano un conflitto di leggi» (da notare che la
dizione è mantenuta anche nell’art. 1 della proposta di
regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla legge applicabile alle
obbligazioni contrattuali (Roma I), presentata il 15 dicembre 2005). Il terzo comma dell’art. 3 cit., poi, impedisce
espressamente alle parti di derogare alle disposizioni imperative
dell’ordinamento cui «nel momento della scelta tutti gli altri dati
di fatto si riferiscano». La scelta non potrà dunque sortire
l’effetto di eludere l’applicazione delle norme cogenti (si badi:
quelle cogenti e non solo quelle di ordine pubblico) del paese con cui il
contratto è collegato in via esclusiva, proprio al fine di evitare che i
soggetti di un rapporto giuridico privo di elementi di estraneità
possano sfuggire all’applicazione delle norme imperative attraverso la
designazione di una legge straniera.
L’argomento sovente portato dai sostenitori
della tesi della ammissibilità del trust
interno si basa sul rigetto – in sede di lavori preparatori della
Convenzione de L’Aja – di una proposta tendente a legare la scelta
della legge straniera all’esistenza di un «lien [réel] avec
la loi choisie», come si legge al paragrafo 65 del rapport explicatif più volte citato. Ma proprio la lettura
di tale paragrafo nella sua interezza rende evidente che il rigetto di tale
proposta s’accompagnò strettamente al rilievo secondo cui
«l’opinion a prévalu qu’il était
préférable de réprimer les choix abusifs dans ce qui
allait devenir l’article 13». E’ chiaro, quindi, che la
proposta, lungi dall’essere rigettata, venne recepita, sebbene in un
diverso articolo. Ora, ai sensi dell’art. 13,
nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della
legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del
trustee, sono più strettamente
connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust
in questione.
Proprio in relazione a siffatta disposizione ecco cosa
chiarisce il rapport explicatif:
«124. On notera encore que cette
disposition permet au juge d’un Etat ne connaissant pas le trust de
refuser la reconnaissance du trust parce qu’il estime qu’il
s’agit d’une situation interne. En revanche, cette
possibilité n’existe pas dans les Etats connaissant le trust, mais
ceux-ci ne semblent pas en éprouver le besoin».
Appare dunque sfatato il mito secondo cui i lavori
preparatori della Convenzione de L’Aja consentirebbero di riconoscere
nella stessa i caratteri di una norma di diritto sostanziale uniforme, essendo
invece chiara l’intenzione di considerare «abusiva» la scelta
del ricorso ad una legislazione straniera per dare vita ad un trust
interno in un paese che non conosca tale istituto. A conferma dei dubbi
sull’accettabilità della tesi che asserisce la validità dei
trusts interni, andrà quindi ribadito che proprio quei lavori preparatori della Convenzione cui i fautori
di tale opinione fanno richiamo
Cfr.
ad es. Trib. Bologna, 1 ottobre 2003, in Trusts
att. fid., 2004, p. 67; la pronunzia è inoltre disponibile al
seguente indirizzo web: http://www.filodiritto.com/notizieaggiornamenti/20ottobre2003/TBOlegittimitatrustinterno.htm |
contengono, in realtà, il chiaro riferimento al potere del giudice di dichiarare la nullità di un trust «parce
qu’il estime qu’il s’agit d’une situation
interne».
A
ciò s’aggiunga che nemmeno l’argomento fondato sulla disparità di trattamento
ingenerata dalla soluzione che non ammette il trust interno rispetto
alle situazioni caratterizzate da un obiettivo elemento di estraneità
(nelle quali non vi è dubbio che la validità del trust
debba essere riconosciuta) appare convincente.
Sembra
infatti a chi scrive che scopo
delle norme di diritto internazionale privato sia (e si perdoni
l’apparente paradosso) proprio quello di creare disparità di trattamento, al
fine di adattare la soluzione alle peculiarità di una fattispecie obiettivamente
caratterizzata da elementi di estraneità e dunque obiettivamente diversa da quella in cui
tali elementi di estraneità sono assenti. In altre parole, è
proprio l’eventuale presenza di elementi di estraneità
«oggettivi» (e dunque distinti dal mero capriccio del settlor) ad imporre (ai sensi del
secondo, anziché del primo comma, dell’art. 3 Cost.) un
trattamento differenziato di situazioni obiettivamente diversificate.
Così, tanto per citare qualche caso esemplare,
nessuno dei sostenitori (tra i quali si annovera, in prima fila, e senza
esitazioni, chi scrive) della piena validità degli accordi
prematrimoniali in vista del divorzio, o dell’eliminazione di
quell’inutile (rectius: utile
solo per gli avvocati) Wartezeit per
il divorzio costituita dalla necessaria separazione legale triennale, si
è mai sognato di argomentare l’auspicabilissimo avvento di una
situazione analoga a quella in vigore nei sistemi di common law sulla base della disparità di trattamento
rispetto ai cittadini stranieri, o comunque rispetto alle situazioni
caratterizzate dalla presenza di un obiettivo elemento di
internazionalità. Eppure è ben noto che – come riconosciuto
anche dalla nostra Corte Suprema – proprio in questi casi, tanto i prenuptial agreements in contemplation of divorce che il divorzio immediato sono
perfettamente riconoscibili dal giudice italiano, cioè da quello stesso
giudice pronto a stracciarsi le vesti allorquando la medesima situazione si
presenta per un affare «di casa nostra».
D’altro
canto, sarà sufficiente riflettere sul fatto che l’argomento fondato sulla disparità
di trattamento, ove spinto alle sue estreme conseguenze, porterebbe puramente e
semplicemente all’inaccettabile risultato di una declaratoria di
incostituzionalità di tutte le norme di diritto internazionale privato.
4. Impossibilità
di fondare su disposizioni di diritto interno la segregazione patrimoniale quale fenomeno generale.
Ugualmente
non persuasivo, a sommesso avviso dello scrivente, appare poi il tentativo di
fondare sulla normativa del codice
civile la possibilità di dar luogo a fenomeni di
«segregazione» patrimoniale al di là dei casi normativamente
previsti.
Si
sono citati al riguardo, per ricordare solo alcune fattispecie, i fenomeni
previsti in relazione agli acquisti del mandatario senza rappresentanza, alla posizione
del debitore che ha
costituito in pegno uno o più beni, alla situazione che si viene
a produrre nella c.d. «fiducia
statica» (che altro non è se non il mandato senza
rappresentanza fiduciae causa) o nel sequestro convenzionale.
Invero,
per ciò che attiene agli acquisti del mandatario, gli artt. 1706 e 1707
dispongono quanto segue.
Articolo 1706
ACQUISTI DEL MANDATARIO 1. Il mandante puo` rivendicare le cose mobili acquistate
per suo conto dal mandatario che ha agito in nome proprio, salvi i diritti
acquistati dai terzi per effetto del possesso di buona fede. 2. Se le cose acquistate dal mandatario sono beni
immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri, il mandatario e`
obbligato a ritrasferirle al mandante. In caso d’inadempimento, si
osservano le norme relative all’esecuzione dell’obbligo di
contrarre. Articolo 1707 CREDITORI DEL MANDATARIO 1. I creditori del mandatario non possono far valere
le loro ragioni sui beni che, in esecuzione del mandato, il mandatario ha
acquistati in nome proprio, purche`, trattandosi di beni mobili o di crediti,
il mandato risulti da scrittura avente data certa anteriore al pignoramento,
ovvero, trattandosi di beni immobili o di beni mobili scritti in pubblici
registri, sia anteriore al pignoramento la trascrizione dell’atto di
ritrasferimento o della domanda giudiziale diretta a conseguirlo. |
Per
ciò che attiene al pegno, stabilisce l’art. 2786 c.c. quanto
segue.
In
relazione al sequestro convenzionale stabiliscono gli artt. 1798 e 1800 c.c.
quanto segue.
Ora,
secondo la tesi qui criticata, tali disposizioni contemplerebbero la
possibilità di dar luogo a fenomeni molto simili all’effetto «segregativo»,
in deroga al disposto di
cui all’art. 2740 c.c., norma sovente invocata da chi
s’oppone alla tesi dell’ammissibilità dei trusts interni. In tutte queste ipotesi
avremmo situazioni di proprietà «a disposizione» di altri
soggetti, diversi dal proprietario e come tali «insensibili» al
fenomeno descritto dall’art. 2740 c.c. Inoltre si verificherebbe una
sorta di «scollamento» tra proprietà del bene e potere di
gestione dello stesso.
Molte
potrebbero essere le critiche a tale impostazione. A partire dal fatto che i
fenomeni descritti, ad esempio, dagli artt. 1706 e 1707 c.c. si spiegano
semplicemente in base alla considerazione per cui gli acquisti (mobiliari) del
mandatario sono in realtà immediatamente soggetti alla proprietà
del mandante alla luce della tesi, vuoi del trasferimento diretto della
proprietà in capo al mandante, vuoi del c.d. «doppio trasferimento
automatico». Non vi
è dunque qui alcuna forma di «scollamento» tra
proprietà e potere di gestione: il mandatario ha quale unico
potere di «gestione» quello di consegnare il bene al mandante,
visto che tale bene è già di proprietà di
quest’ultimo.
Anche
a voler contemplare la posizione del mandante la situazione non cambia rispetto
alle regole ordinarie: se
proprietario è il mandante i suoi creditori potranno soddisfarsi su tali
beni e dunque non vi è alcun fenomeno di segregazione simile a quello
che si produce nel caso di trust.
Per
gli acquisti immobiliari
vi è invece, effettivamente, una proprietà (del mandatario: lo si
desume dal fatto che egli è tenuto a trasferire e non già
semplicemente ad immettere nel possesso) a disposizione del mandante e per
questo il bene è sottratto alla garanzia generica offerta ai creditori
del mandatario dal patrimonio di quest’ultimo.
Peraltro,
in questo caso, come negli
altri citati, (e fermo restando, naturalmente, che la questione
meriterebbe ben altro approfondimento, impossibile nella presente sede),
l’effetto sembra invero porsi
quale esclusiva
conseguenza di precise disposizioni di legge, in fattispecie che la legge
stessa tassativamente descrive, ricollegandole a ben precise dichiarazioni
negoziali, inestensibili analogicamente.
Si
noti poi che tutti i casi qui descritti traggono origine da negozi bilaterali,
laddove il trust può dar luogo
a segregazione anche in base a dichiarazioni unilaterali. In altre parole,
sembra che l’art. 2740 c.c. non possa subire deroghe se non nei casi
tassativamente previsti dalla legge.
Un’ulteriore
riflessione si impone: proprio il confronto con le ipotesi sopra indicate
dimostra come nel nostro ordinamento fattispecie lato sensu assimilabili al trust
presentino rispetto a tale figura una differenza insormontabile: ci si
riferisce alla struttura stessa del trust, che consiste in un vero e
proprio sdoppiamento del diritto di proprietà, sdoppiamento sconosciuto
nel nostro ordinamento e tale da dar luogo ad una nuova categoria di diritti
reali, in contrasto con il principio d’ordine pubblico della
tassatività di questi ultimi.
La tesi
sull’ammissibilità di un trust
(non già
«interno», in forza della Convenzione de L’Aja, ma) «di diritto interno»
(cioè in forza del diritto materiale interno italiano) è stata
anche difesa con forza da una pronunzia di merito che, dopo aver correttamente dimostrato
l’inapplicabilità al caso in esame della Convenzione, riferibile
solo al riconoscimento di trust
connotati dalla presenza di un obiettivo elemento di internazionalità,
ha ritenuto che l’autonomia
negoziale dei privati sia in grado, ai sensi degli artt. 1322 e 1324
c.c., di dare origine ad un trust
anche in assenza di un elemento di estraneità, allorquando il negozio
istitutivo sia in concreto preordinato al perseguimento di interessi meritevoli
di tutela.
Trib.
Velletri, 29 giugno 2005, in Corr. giur.,
2006, p. 695 ss., con nota di Galluzzo,
Autonomia negoziale e causa istitutiva
di un trust. |
Rinviando alla attenta nota di commento per la dettagliata confutazione di tale
assunto, potrà sommariamente rilevarsi come, in considerazione della
natura straordinaria ed eccezionale del vincolo di indisponibilità
imposto con il perfezionamento del negozio destinatorio costitutivo del trust, meritino di essere condivise le
conclusioni di chi ha affermato che il fenomeno della funzionalizzazione del diritto dominicale
può operare nelle
sole ipotesi in cui la destinazione sia stata espressamente autorizzata dal
legislatore e non invece nel caso in cui l’imposizione del vincolo
– al di fuori degli schemi tassativi di proprietà-funzione
predisposti dalla legge – costituisca il mero «precipitato»
dell’autonomia privata. Le conclusioni non possono mutare neppure dopo
l’introduzione dell’art. 2645-ter c.c., posto che
la disposizione – come si avrà modo di vedere tra breve –
delinea un fenomeno assai
diverso dal trust.
5. Trust e negozio
fiduciario.
A quanto sopra si potranno poi aggiungere i dubbi
prospettati da una decisione di merito
Trib.
Belluno, 25 settembre 2002, in Corr. giur., 2004, p. 57. |
, nonché da una parte della dottrina, sul piano causale del negozio
traslativo concernente un trust non
autodichiarato. Muovendo, infatti,
dalla constatazione per cui, ai sensi dell’art. 4 della Convenzione de
L’Aja, la convenzione
stessa non trova
applicazione alle «questioni
preliminari relative alla validità dei testamenti o di altri atti
giuridici, in virtù dei quali determinati beni sono trasferiti al trusteee», e dunque al negozio di
trasferimento dei beni in trust, si
è osservato che, per la validità di tale atto traslativo, nel
caso di un trust interno, dovranno
comunque trovare applicazione le norme della legge italiana. Si è in
proposito contestato
che il nostro ordinamento possa ammettere un negozio traslativo a causa esterna fiduciaria, e si è sul punto
negato che nell’ipotesi in esame la giustificazione causale
dell’atto di trasferimento si possa trovare nel contratto con il quale il
fiduciario si è obbligato ad acquistare la proprietà del bene che
il fiduciante intende trasferirgli, quale mezzo per adempiere la fiducia.
Si è in particolare espressa opinione contraria, in
dottrina, sull’ammissibilità della causa fiduciae quale causa sufficiente a trasferire la
proprietà dal fiduciante al fiduciario, sia con riferimento alla fiducia cum amico, sia con riguardo a
quella cum creditore. Sotto entrambi
i profili viene in considerazione il medesimo ostacolo, costituito dal limite
che l’autonomia privata incontra nella costruzione di diritti e vincoli
reali diversi da quelli direttamente previsti dalla legge e nel perseguimento
di obiettivi volti ad ostacolare la libera circolazione dei beni, a porre divieti
di alienazione ovvero ad effettuare la dissociazione permanente tra
titolarità del bene e suo godimento (donde, ad esempio,
l’inderogabilità della disciplina relativa alla necessaria
temporaneità dell’usufrutto).
Ma, per tornare
all’impostazione «dualistica», espressa con la nota e
immaginifica metafora della «rampa di lancio» (vale a dire il
contratto o il testamento che trasferisce i beni al trustee, così permettendo al trust di venire in essere e lanciandolo nel mondo del diritto) e
del «razzo» (cioè del trust
in sé, che ha vita autonoma ed indipendente dal negozio che ha
costituito, per così dire, la «provvista» della sua
creazione), va ammesso che la
questione appare quanto mai spinosa, anche perché tocca direttamente il
principio del numero chiuso dei diritti reali. Proprio per questa
ragione, ad esempio, Pugliatti
escludeva l’ammissibilità della causa fiduciae e della proprietà fiduciaria.
Di contro si potrebbe
però obiettare che la causa
esterna nella
fiducia potrebbe forse rinvenirsi in un mandato senza rappresentanza
tra fiduciante e fiduciario, configurando, quale negozio che il
mandatario-fiduciario si obbliga ad eseguire per conto del mandante, proprio il
successivo (ri)trasferimento al mandante o ad un terzo. A ciò s’aggiunga che oggi il d. lgs. 21
maggio 2004, n. 170, emanato in attuazione della direttiva 2002/47/CE
relativa ai contratti di garanzia finanziaria, riconosce espressamente il
«trasferimento della proprietà di attività finanziarie con
funzione di garanzia» e ciò addirittura con espressa deroga al
divieto del patto commissorio (cfr. art. 6 d.lgs. cit.).
L’atto traslativo
– pur privo in sé di
supporto causale – s’appoggerebbe, dunque, ad una causa esterna o praeterita. E del resto il negozio
traslativo a causa esterna non pare tout
court incompatibile con il nostro ordinamento. Come si è esattamente
rilevato in dottrina, l’art. 1376 c.c. agevola le parti, ma non
può vincolarle contro la loro stessa volontà. Del resto, che il
principio consensualistico possa essere derogato si desume anche dal secondo
comma dell’art. 1465 c.c. (in materia di risoluzione del contratto per
impossibilità sopravvenuta della prestazione), che consente che
l’effetto traslativo o costitutivo sia differito fino allo scadere di un
termine, nonché dalla ammissibilità nel nostro ordinamento, della
clausola che eleva il pagamento del prezzo a condizione sospensiva di efficacia
del contratto.
Varrà però la
pena di ribadire che, se le surriferite argomentazioni possono consentire di
giustificare (anche ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 4 della
Convenzione de L’Aja) i trasferimenti che s’accompagnano ad un trust non autodichiarato, è la creazione in
sé di tale vincolo che continua a destare perplessità, atteso che la sola
autonomia privata non può dar luogo ad eccezioni rispetto al principio
di cui all’art. 2740 c.c., norma
che, pur in presenza di numerose deroghe (e l’art. 2645-ter c.c., come vedremo, ne rappresenta
una vistosa), continua a mantenere il suo carattere di inderogabilità, anche per
evidenti motivi d’ordine pubblico. E’ chiaro, infatti, che se ai privati venisse
concessa la facoltà di dar vita ad
libitum a vincoli di inespropriabilità, la garanzia patrimoniale generica
rischierebbe di vedersi ridotta ad una mera parvenza, scaricandosi sempre e
comunque sui creditori l’onere di esperire un’azione revocatoria,
il cui esito favorevole – avuto riguardo alle incertezze legate alle
prove richieste dall’art. 2901 c.c., anche in relazione agli atti
gratuiti – non potrebbe certo darsi sempre per scontato.
E’ dunque vero che, come pure è stato
notato, la creazione di un
vincolo di destinazione, al di fuori dei casi normativamente previsti (e
l’introduzione proprio dell’art. 2645-ter c.c. viene al riguardo a presentare un formidabile argomento a contrario), comporterebbe il frazionamento del
patrimonio del disponente, il quale verrebbe a scomporsi in distinte entità: da un
lato, quella formata dall’insieme dei beni destinati allo scopo;
dall’altro lato, quella rappresentata dagli altri beni. I beni destinati costituirebbero
così un patrimonio separato, in deroga all’art. 2740 cpv. c.c.
Né al riguardo vale osservare che contro gli atti dispositivi idonei a
diminuire la garanzia patrimoniale del debitore sarebbe applicabile il (solo) rimedio dell’azione
revocatoria, posto che la sussistenza, in una determinata fattispecie,
dei presupposti di applicabilità dell’art. 2901 c.c. non può certo dar
luogo ad una (del tutto anomala ed assolutamente non prevista) esclusione di
operatività per quella stessa fattispecie delle regole generali che
discendono dalla violazione in concreto di una o più norme imperative. Così,
tanto per fare un esempio, nessuno si sognerebbe di sostenere la validità
di un atto costitutivo di fondo patrimoniale ex artt. 167 ss. c.c. tra conviventi more uxorio, sol perché finalizzato a frodare le ragioni dei
creditori e pertanto revocabile ex
art. 2901 c.c.
6. L’atto di destinazione ex art. 2645-ter c.c. di fronte al trust interno: prime reazioni e impressioni.
Una parte
della dottrina (di
quella, in particolare, favorevole alla tesi del trust interno), posta di fronte alla novità costituita
dall’introduzione dell’art. 2645-ter c.c., ha ritenuto di dover immediatamente esaltare le affinità tra i due
istituti qui in esame, concludendo per una coincidenza quasi totale o, quanto meno, parziale
tra gli stessi, evidenziando altresì che la novella comporterebbe la
soluzione in senso positivo dell’annosa questione della
trascrivibilità del trust.
Qualche Autore si
è addirittura spinto a sostenere che, a seguito della riforma, il nostro
Stato non potrebbe più essere annoverato tra quelli che «non prevedono l’istituto
del trust» e conseguentemente l’art. 13 della Convenzione de
L’Aja non potrebbe più «essere invocato per negare il
riconoscimento ad un trust interno».
Le conclusioni
cui un’attenta disamina delle fattispecie in oggetto deve condurre sono,
in realtà, ben
diverse.
Ma prima di cercare di analizzare in maniera analitica
le differenze tra trust e atto
destinazione ex art. 2645-ter c.c. sarà opportuno gettare
un primo sguardo d’insieme al tenore della disposizione da ultimo citata,
che recita testualmente quanto segue:
«Gli atti in forma pubblica con cui
beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri
sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la
durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone
con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone
fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma, possono
essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione;
per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al
conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso.
I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la
realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di
esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo
per debiti contratti per tale scopo».
Nel testo
sopra virgolettato si sono evidenziati
in corsivo i punti di
divergenza (sicura, o, quanto meno, prospettabile) rispetto al trust.
Appare quindi evidente che (almeno in termini di numero di caratteri!) oltre la metà
della disposizione in esame risulta incompatibile (o pone seri problemi di
coordinamento) con l’istituto del trust.
7. Meritevolezza di tutela degli interessi da
realizzarsi con l’art. 2645-ter c.c. e causa tipica del trust. Meritevolezza del motivo del negozio di
destinazione.
Passando ad esaminare partitamente i diversi profili di differenza tra i due istituti
dovremo concentrare in primo luogo l’attenzione su quello che di essi
appare – ad avviso di chi scrive – più evidente: al punto da
impedire di riconoscere
all’art. 2645-ter c.c. la
natura anche solo di mero frammento
di trust, per l’ontologica ed insanabile diversità tra i
due istituti. Ci si intende qui riferire alla necessaria presenza di uno
scopo coincidente con la «realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a
persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o
persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma», c.c.
Diciamo subito che la sottolineatura in questione
viene a tal punto marcata dal legislatore da non consentire dubbi sul fatto che
l’atto istitutivo
del vincolo debba
obbligatoriamente contenere espressa menzione dello scopo, tanto che non
manca chi parla al riguardo di una necessaria expressio finis,
che fornisce la giustificazione del vincolo di destinazione impresso ai beni e
che come tale deve essere contenuta anche formalmente nell’atto
istitutivo.
Né sul punto varrebbe obiettare che l’immeritevolezza,
cui fa richiamo per il contratto in generale l’art. 1322 cpv. c.c.,
sarebbe ipotesi ormai di
scuola e che il requisito menzionato da tale articolo verrebbe, in buona
sostanza, confuso con l’assenza di illiceità.
Sia consentito ribattere, in primo luogo, che non
risponde in alcun modo a verità l’opinione diffusa, secondo cui la
giurisprudenza di
legittimità non
avrebbe mai dichiarato un contratto atipico lecito, ma immeritevole di tutela.
Cfr.
ad es. Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter,
cit., § 3, secondo il quale dal 1942 ad oggi una sola sentenza avrebbe dichiarato un
contratto atipico lecito, ma immeritevole di tutela; l’Autore
cita in proposito App. Milano, 29 dicembre 1970, in Riv. dir. comm.,
1971, II, 81; pronunzia, questa, cassata da Cass. 2 luglio 1975, n. 2578, in Temi,
1977, p. 133. |
Una ricerca, anche sommaria, negli archivi della Cassazione mostra, ad
esempio, che non mancano
certo le ipotesi in cui la Corte Suprema ha riconosciuto la nullità di
un contratto innominato per immeritevolezza, pur espressamente
qualificandolo come non contrario a norme imperative, all’ordine pubblico
o al buon costume.
Cfr.
ad esempio Cass., 23 febbraio 2004, n. 3545; Cass., 28 luglio 1981, n. 4845. |
Ne segue l’inaffidabilità dell’affermazione –
pure rinvenibile nella stessa giurisprudenza di legittimità e, forse,
troppo enfatizzata dalla dottrina – secondo cui la Cassazione avrebbe
«finito per abbandonare
il requisito autonomo della meritevolezza per dichiarare meritevole
tutto ciò che non è contrario alle norme imperative,
all’ordine pubblico e al buon costume».
Così
Cass. 6 febbraio 2004, n. 2288. |
D’altro canto, può darsi per assodato che
il requisito di cui all’art. 1322 cpv. c.c. si riferisce alla sola materia dei contratti atipici, posto che la meritevolezza di tutela
viene garantita, per i contratti nominati, dal semplice fatto che il
legislatore ha ritenuto di prevederli e disciplinarli. A questo punto si
potrebbe allora rimarcare che l’art. 2645-ter
c.c., ancora a prescindere dal «tormentone dottrinale» circa la sua
riferibilità (anche) allo schema contrattuale, costituisce figura sicuramente tipica,
giudicata a priori nel tipo come meritevole di
tutela, a condizione che meritevole di tutela sia l’interesse perseguito
in concreto, di volta in volta, dal costituente (o conferente, che dir si
voglia).
L’osservazione sembra dunque rendere evidente la
necessità di riferire la meritevolezza, con riguardo agli atti di destinazione, non già al tipo negoziale individuato dal legislatore – cioè a dire
il vincolo,
così come disciplinato (in maniera certo rozza, illogica,
contraddittoria: ma pur sempre disciplinato) dall’art. 2645-ter c.c. – bensì allo scopo in concreto e di volta
in volta perseguito dal «conferente». In altri termini,
ciò che sembra qui far capolino è, a ben vedere, il concetto (non
già di causa, tipizzata dal legislatore, ma) di motivo, il quale, a differenza che nella
disposizione testamentaria (cfr. art. 626 c.c.) e nella donazione (cfr. art.
788 c.c.), rileva non solo in caso d’illiceità, ma, prima ancora,
addirittura nell’ipotesi di sua immeritevolezza.
La considerazione rende ragione – se ancora ve
ne fosse bisogno – della necessità, sopra evidenziata, di un’expressio
finis, sulla base di un
giudizio che non può essere demandato se non (in prima istanza) al
pubblico ufficiale che redige l’atto e, in ultima analisi, in caso di
contestazione, al giudice.
Dunque ecco stagliarsi una prima, fondamentale,
differenza della
fattispecie descritta dall’art. 2645-ter
c.c. rispetto al trust. Se, invero,
si ammettesse il trust interno,
occorrerebbe anche ammettere che ci si troverebbe di fronte ad una figura tipica, per la quale la valutazione di meritevolezza
è stata effettuata una volta per tutte, «a monte»
(come si direbbe oggi), dal legislatore, il quale avrebbe così ritenuto
di conformarsi ai modelli di trust
previsti dai vari ordinamenti che tale figura conoscono, in quanto richiamati
dal capriccio dei costituenti nei rispettivi atti costitutivi. Ma è
chiaro che nessun notaio,
in sede di stesura dell’atto, e nessun giudice, in sede di contestazione, una
volta data per ammissibile la costituzione di un trust interno, potrebbero
mai permettersi di vagliare la meritevolezza del motivo per il quale esso
è stato creato (al di là, è ovvio, della
liceità della causa, che, come si è detto, è cosa che si
pone su di un piano ben diverso). Così, tanto per portare un esempio, l’intento del professionista di
evitare, mercé la segregazione del suo patrimonio in trust, che un giorno eventuali propri clienti insoddisfatti
(e vincitori di ipotetiche cause di responsabilità nei suoi riguardi) si
fiondino sul frutto dei suoi risparmi, sebbene non
illecito, appare (quanto meno a chi scrive) del tutto immeritevole di tutela, epperò inidoneo a determinare per ciò solo
una declaratoria di nullità dell’atto.
Tutto al
contrario, nel caso dell’art. 2645-ter
c.c., il controllo di meritevolezza del motivo risulta essenziale per la
validità del vincolo e ne costituisce un elemento strutturale.
In ogni caso appare – quanto meno a chi scrive
– contraddittorio,
per chi ammette la validità del trust
interno, sottoporre
quest’ultimo ancora a valutazione di meritevolezza. Una volta che
si sia detto che la Convenzione de L’Aja legittima cittadini italiani a
dar luogo ad un trust anche in
assenza di un qualsiasi elemento di estraneità che non sia costituito
dal capriccio delle parti nella scelta della legge straniera applicabile, la
valutazione di meritevolezza deve ritenersi, come già ricordato,
compiuta dal legislatore una volta per tutte. Semmai, la valutazione che
è richiesta dalla legge è, a questo punto, quella di conformità
con le regole elencate (non tassativamente!) all’art. 15 della
Convenzione: principi che peraltro impongono un giudizio di
compatibilità con le norme inderogabili dell’ordinamento designato
dalle regole di conflitto del foro e non certo una valutazione di
meritevolezza.
Ne esce confermato, dunque, che
l’art. 2645-ter c.c. contiene
in sé un primo
elemento (la meritevolezza
di tutela degli scopi perseguiti con il vincolo) che lo rende assolutamente incompatibile con il trust, posto che per la sussistenza di
quest’ultimo, una volta che lo si sia ritenuto ammissibile nel nostro
ordinamento, nessun giudizio di meritevolezza – né del tipo
negoziale, né degli scopi perseguiti – è richiesto.
8. Il tipo di meritevolezza di tutela degli interessi
da realizzarsi con l’art. 2645-ter c.c.
La
diversità della fattispecie (malamente) delineata dall’art. 2645-ter c.c. rispetto al trust emerge ancora più evidente
se si cerca di rispondere alla domanda su quale sia il tipo di meritevolezza richiesto. Qui va
subito detto che la dottrina
contraria ad appiattire tale valutazione su di un mero apprezzamento di non
illiceità si divide
tra chi afferma la necessità che lo scopo realizzi un fine di utilità
sociale, o di pubblica utilità, che dir si voglia, e chi sostiene,
in alternativa, che lo scopo – ancorché non rispondente a tali
ultimi fini – potrebbe limitarsi a meritare un generico «apprezzamento positivo».
L’unico punto su cui sembra esservi convergenza di vedute è che la
meritevolezza non può
consistere nella pura
e semplice salvaguardia
del patrimonio del
costituente da azioni esecutive dei propri creditori.
La tesi della rispondenza a pubblica utilità trova un
preciso addentellato nel dibattito relativo alle fondazioni di famiglia e pare
confermata dalla durata del vincolo, che, potendosi estendere fino a novanta anni, riferisce
la finalità destinatoria necessariamente all’interesse di terzi
diversi dal conferente.
Ma, a ben
vedere, in dottrina vi è chi ha prospettato una lettura ancora più rigorosa, fondata
sulla valorizzazione dell’espressa menzione dei disabili, da un lato, e delle
pubbliche amministrazioni, dall’altro. In quest’ottica si è
rilevato che «La menzione dei disabili permea di sé l’intera
norma e ne costituisce la chiave
di lettura, secondo un parametro di comparazione, un “concetto
relazionale”, che richiede una
particolare caratura dell’interesse in esame».
In questo senso sembrano deporre anche i precedenti della norma, ispirata ad alcune (peraltro ben più
ponderate e già ricordate) proposte di legge della XIV legislatura, che,
sotto il titolo, rispettivamente, «Disciplina della destinazione
di beni in favore di soggetti portatori di gravi handicap
per favorirne l’autosufficienza» (cfr. la proposta contrassegnata
dal N. 3972, presentata alla Camera dei Deputati il 14 maggio 2003) e
«Norme in materia di trust a
favore di soggetti portatori di handicap»
(cfr. la proposta contrassegnata dal N. 2733, presentata alla Camera dei
Deputati il 10 maggio 2002), miravano
ad introdurre, a tutela delle persone disabili, la possibilità di dar
luogo ad un vincolo assai simile a quello che si attua negli ordinamenti di common law con il trust.
Più
che legittimo appare quindi il dubbio che meritevoli di tutela ex art. 2645-ter c.c. possano
solo essere, tra gli scopi di utilità sociale, quelli improntati al
canone della solidarietà. Ne deriva che potranno ritenersi
sicuramente meritevoli di tutela interessi quali quelli legati al
·
dovere di contribuzione nella famiglia tanto legittima (artt. 143, 167
c.c.),
·
che di fatto,
·
all’obbligo
di mantenimento
della prole, sia
nella fase «fisiologica»
(artt. 147, 148 c.c.),
·
che in quella
«patologica»
(artt. 155 ss. c.c., art. 6, l.div.) del rapporto coniugale,
·
allo stesso mantenimento del coniuge separato (art. 156 c.c.)
e
·
all’assegno
in favore del divorziato
(art. 5, commi quinto ss., l.div.), per i quali del resto non si esita a
parlare di «solidarietà
postconiugale».
La famiglia
costituisce dunque il
terreno d’elezione per lo sviluppo di tali manifestazioni di solidarietà,
che, ancorché dirette a soggetti determinati, finiscono con
l’assumere una funzione
sicuramente sociale.
Un altro rimarcabile punto di differenziazione tra le
due figure in esame attiene a quella dialettica tra profilo «statico» e profilo «dinamico» che
caratterizza il trust nei rapporti
tra vincolo di destinazione ed effetto traslativo dei diritti.
E’ noto infatti che, a meno che si versi in
ipotesi di trust autodichiarato, l’istituto di
matrice anglosassone prevede usualmente
un trasferimento (dal
settlor al trustee) dei beni su cui il vincolo viene a costituirsi,
nonché la previsione di un ulteriore trasferimento,
una volta che le finalità del trust
siano state realizzate, ad un soggetto determinato, che potrà essere il settlor (ed in tal caso si avrà
un vero e proprio ritrasferimento), o, in alternativa, uno o più dei
beneficiari, che acquisteranno così la veste di beneficiari finali.
Il vero problema
posto dall’art. 2645-ter c.c.
consiste nell’esatta identificazione delle facoltà concesse al «conferente»:
vale a dire se, mercé l’istituto in oggetto, sia possibile esclusivamente prevedere
la costituzione di un vincolo
su beni di proprietà del costituente medesimo, ovvero se la norma
ammetta anche l’effettuazione di trasferimenti di diritti
in capo ad un distinto «esecutore della destinazione» e,
soprattutto, se tale soggetto possa ulteriormente vincolarsi a trasferire, una volta giunto a scadenza il periodo
di durata del vincolo stesso, i beni ad un soggetto distinto, secondo quanto
avviene nelle ipotesi di trust non
autodichiarato.
E’ evidente che la
risposta positiva ad un siffatto interrogativo consentirebbe di dar vita non solo, come si
vedrà tra breve, ad un nuovo tipo di «fondo patrimoniale», così come
ad una nuova forma di garanzia delle prestazioni postmatrimoniali, ma addirittura di prevedere,
nell’ambito endofamiliare, attribuzioni di cespiti patrimoniali in
occasione di determinati eventi, quali il raggiungimento della maggiore età da parte
dei figli, la crisi del
rapporto, o lo scioglimento
di esso per divorzio o per la morte di uno dei coniugi.
Peraltro i concetti di «destinazione per un determinato
periodo» e di «vincolo»,
contenuti nella norma novellamente introdotta nel nostro codice civile, sono ben distinti da quello di
«trasferimento
di un diritto».
Un bene può
essere vincolato ad
uno scopo senza essere trasferito ad un soggetto
diverso dal suo titolare, come avviene, ad esempio, nel fondo patrimoniale su beni dei coniugi o nel trust autodichiarato, nel quale è
lo stesso costituente a porsi quale trustee.
Vincolo di destinazione
significa che il bene può essere amministrato solo in vista della realizzazione di
quello scopo e che tale bene è aggredibile dai soli creditori i cui diritti si
fondano su atti di gestione compiuti in vista della realizzazione dello scopo
medesimo. Ma tutto ciò, con il trasferimento del bene dal costituente ad un
terzo, e con l’eventuale successivo ritrasferimento ad un beneficiario finale, nulla ha a che vedere.
Se volgiamo l’attenzione all’art. 2645-ter c.c., scopriamo che la disposizione contiene le seguenti
espressioni: «atti
in forma pubblica con cui beni
immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo
non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica
beneficiaria, alla realizzazione
di interessi meritevoli di tutela» e poco sotto, «vincolo di destinazione».
La prima e provvisoria conclusione alla quale sembra
potersi pervenire sul punto è che la norma novellamente introdotta nel codice civile si
limita a prevedere la costituzione di un vincolo in maniera del tutto avulsa dal fatto che in
vista di tale vincolo sia stato effettuato un trasferimento del diritto sul bene da vincolarsi,
ovvero che le parti pattuiscano un ritrasferimento in capo al trasferente, o un
trasferimento ulteriore, una volta che il vincolo sia giunto a scadenza.
In questo senso sembra anche orientata la circolare n. 5/2006 della
Direzione dell’Agenzia
del Territorio, del 7 agosto 2006
Disponibile al seguente indirizzo web: |
, la quale rimarca, testualmente, che «Quanto ai
profili di merito, sembra opportuno ribadire preliminarmente la circostanza che
detti atti di destinazione producono soltanto effetti
di tipo “vincolativo”.
Come già in parte accennato, infatti, i beni oggetto degli atti di
destinazione, pur venendo “segregati” rispetto alla restante parte
del patrimonio del “conferente” – al fine di garantire la
realizzazione degli interessi meritevoli di tutela cui è preordinato il
vincolo – restano
comunque nella titolarità giuridica del “conferente”
medesimo».
Nonostante ciò, molti interpreti concordano nel ritenere che
l’art. 2645-ter c.c. possa anche prevedere un momento
traslativo. Più esattamente, mentre alcuni sembrano dare tale effetto quasi per scontato, altri cercano
di fornire dimostrazioni al riguardo, sovente appoggiandosi alle
ambiguità della formulazione normativa.
Così si è affermato che siffatta
conclusione trarrebbe conferma dal fatto
·
che il testo
«considera normale l’eccedenza
della durata del
vincolo rispetto alla vita
del disponente,
·
perché
chiama “conferente”
il disponente e, infine, perché consente a terzi interessati di agire
per l’attuazione della finalità dell’ “atto di
destinazione” anche dopo la morte del “conferente”».
·
Non solo. La
legge, oltre a parlare di «conferente» e di «beni conferiti», attribuisce al conferente
il potere di agire per
l’adempimento dello scopo, così facendo chiaramente
intendere che, non potendosi immaginare che il conferente convenga in giudizio
se stesso, occorre necessariamente concludere che la norma dà per scontato
l’intervento di un terzo soggetto, cui il diritto sul bene vincolato
viene trasferito.
Cominciamo dal termine «conferente» e da quello, ad esso
riferito, «beni conferiti». Sotto il profilo strettamente etimologico andrà
notato che il verbo confero deriva da
cum-ferre: le espressioni in oggetto
denotano dunque un atto traslativo (ferre)
compiuto con altri soggetti.
La conferma balza agli occhi sol che si ponga mente ai
conferimenti del diritto
societario (cfr. ad es. artt. 2253, 2343 ss., 2440 c.c.), o al
conferimento per la costituzione di fondi di garanzia (art. 2548 c.c.), ma
anche al conferimento negli ammassi
(art. 837 c.c.) o al verbo «conferire» impiegato dalle norme (cfr. artt. 737, 739,
740, 751 c.c.) in tema di collazione
(termine che deriva, a sua volta, proprio dal verbo conferre). La giurisprudenza
impiega dal canto suo questa medesima terminologia per denotare
l’inserimento, in comunione
convenzionale tra
coniugi, di uno o più beni che, in assenza di convenzione, sarebbero
rimasti personali ex art. 179, lett.
a), c.c.
Cfr.
Cass., 4 febbraio 2005, n. 2354, in Foro
it., 2005, I, c. 1735; in Fam. e
dir., 2005, p. 237, con nota di V. Carbone. |
Altrettanto sicuramente può però
rimarcarsi che, nel linguaggio
corrente, il verbo «conferire» e il sostantivo
«conferimento» possono essere riferiti anche ad una semplice sottoposizione a vincolo,
a prescindere dal fatto che ciò presupponga il trasferimento della
proprietà sul bene vincolato, come dimostrato da una florida messe di pronunzie di legittimità, che,
senza alcuna difficoltà, parlano di «conferimento» (e/o di «beni
conferiti») in fondo
patrimoniale
Cfr. ad es. Cass., 31 maggio 2006, n. 12998. |
come del resto
già si diceva per la dote
(che pure si sostanziava in un mero vincolo)
Cass.,
20 maggio 1977, n. 2096. |
e – a quanto
pare – si comincia a dire pure per il trust autodichiarato
Di «beni conferiti in trust»
parla anche Trib. Bologna, 1 ottobre 2003, cit. |
Quanto sopra dimostra che
l’impiego dei termini
in discorso non tradisce necessariamente l’intento di
richiamare una vicenda traslativa
di diritti, ben potendo riferirsi anche alla sola intenzione di denotare la
costituzione di un vincolo.
Per quanto attiene poi al fatto che il legislatore mostrerebbe di considerare normale l’eccedenza della durata del vincolo rispetto alla vita del disponente, va detto che non sussistono difficoltà nel riconoscere che il vincolo si trasmetta agli eredi del titolare del diritto vincolato: ma ciò non ha nulla a che vedere con la natura traslativa o meno del fenomeno descritto dall’art. 2645-ter c.c. Del resto non si riesce a comprendere perché un ipotetico trustee all’italiana ex art. 2645-ter c.c. dovrebbe essere dotato di una longevità maggiore di quella del costituente. Proprio l’ipotesi (pure essa «fisiologica») della premorienza di tale soggetto rispetto al momento di cessazione del vincolo, ben lungi dal risolvere il problema adombrato, pone, anzi, il quesito della trasmissibilità agli eredi di quest’ultimo.
Venendo alla legittimazione attiva concessa al conferente
medesimo, si è asserito che anche tale elemento confermerebbe gli
effetti traslativi (o anche traslativi) della vicenda descritta nell’art.
2645-ter c.c., poiché non avrebbe
senso legittimare il costituente ad agire contro se stesso. Ne deriverebbe una
necessaria scissione tra «conferente» ed un soggetto distinto, che
finirebbe con lo svolgere funzioni analoghe a quelle di un trustee.
Ma, a parte il rilievo che, negli ordinamenti di common law, il settlor
non ha generalmente azione contro il trustee,
onde si porrebbe un’ulteriore distinzione tra la figura in esame ed il trust, si può però
obiettare, in primis, che il riferimento
all’azione del costituente ben può intendersi come riferita ad un’actio mandati del costituente stesso contro il mandatario che il
medesimo abbia eventualmente incaricato di attuare lo scopo.
D’altra parte, come messo in luce in dottrina, «la previsione di
una sistematica legittimazione attiva del conferente potrebbe (…) anche
indicare che il conferente,
essendo sempre altresì gestore del fondo destinato, ha il potere di attivarsi
per la realizzazione del
fine di destinazione contro
qualunque soggetto terzo che tenti di impedirla».
Concludendo sul punto, ben può concordarsi con
chi afferma che la norma
non pare offrire elementi testuali decisivi in un senso o nell’altro,
poiché utilizza ora termini neutri al riguardo (beni
«destinati»; «vincolo di destinazione»; «fine di
destinazione»), ora termini ambivalenti, in quanto evocano
l’immagine di un trasferimento di beni («conferente»; beni
«conferiti») ma vengono inseriti in un contesto in cui mai viene
menzionata l’esistenza di un soggetto gestore che sia diverso dal
soggetto autore della destinazione.
10. Segue. Vicende traslative disposte
dall’autonomia delle parti in relazione all’art. 2645-ter c.c. Il trasferimento alla scadenza del
vincolo.
La conclusione di cui sopra – secondo cui
costituzione di un vincolo e trasferimento del diritto sul bene già
vincolato, o da vincolarsi, sono vicende radicalmente distinte tra di loro,
mentre l’art. 2645-ter c.c.
sembra far riferimento alla sola prima delle due, con conseguente
differenziazione rispetto al trust
– non risolve ancora di per sé l’ulteriore quesito circa la possibilità che le parti autonomamente e in base ai principi di autonomia
privata prevedano un trasferimento
in vista dell’attuazione del vincolo medesimo. La questione rievoca gli
accaniti dibattiti sull’idoneità del consenso a riprodurre nel
diritto italiano questo effetto, tipicamente conosciuto dagli atti costitutivi
di trust (almeno, di quelli non
autodichiarati) nel diritto anglosassone.
In questa sede non si potrà far altro che
rilevare come l’esistenza
di un articolo quale il 2645-ter
c.c., ancorché non delineante di per sé una fattispecie
traslativa, può
ora porsi quale idonea
causa al trasferimento operato in funzione del vincolo di destinazione
meritevole di tutela e costituito con il rispetto delle regole previste dalla
disposizione.
In altre parole, mentre in precedenza il trasferimento
in funzione della costituzione di un vincolo da trust, non coperto dall’operatività della Convenzione
de L’Aja, per effetto del disposto del suo art. 4, non poteva ritenersi
sorretto da idonea causa, se non ricorrendo alla controversa tesi della causa fiduciae, può ora dirsi che la translatio
dominii compiuta in funzione della costituzione di un vincolo quale quello
(malamente) descritto dall’art. 2645-ter
c.c. sia giustificata, proprio perché diretta a porre in essere
un vincolo (questa volta espressamente) riconosciuto dalla legge.
Trattasi dunque di trasferimento causalizzato
dall’art. 2645-ter c.c., in
quanto posto in essere per raggiungere lo scopo meritevole di tutela e
perché attuato verso un soggetto incaricato, in base ad un apposito
mandato (e/o di un contratto d’opera, visto che il più delle volte
non si tratterà certo solo di porre in essere atti giuridici) di porre
in essere tutti i comportamenti ritenuti idonei al fine di ottenere il
conseguimento dello scopo sperato.
Strettamente collegato al momento traslativo è quello dell’eventuale
ritrasferimento del diritto dominicale – una volta trascorso il
periodo di durata, o che si sia verificata la morte del beneficiario –
dall’ «attuatore» al costituente, o a un terzo, ovvero ancora
dallo stesso costituente (e contemporaneamente «attuatore», o dagli
eredi di quest’ultimo) ad un terzo. E’ noto che questo aspetto
è uno dei profili
salienti dei trusts, che sovente prevedono proprio
la duplice figura del beneficiario
immediato e del beneficiario
finale: il primo dei quali è costituito dal soggetto che
s’avvantaggia del vincolo di durata, mentre il secondo (che può
anche coincidere con il primo) è la persona cui andrà trasferita
la proprietà dei beni (già) vincolati.
Ancora una volta i sostenitori della ammissibilità del trust interno non sembrano
mostrare dubbi sulla liceità
di una siffatta pattuizione, al punto da spingersi ad ipotizzare la trascrivibilità immediata, nel caso di
mandato senza rappresentanza ad acquistare, del «vincolo di destinazione dei beni a beneficio del mandante. Senza,
quindi, necessità di attendere l’eventuale inadempimento del
mandatario al fine di trascrivere la domanda di esecuzione in forma specifica
dell’obbligo di ritrasferimento», così «assicurando al
mandante una tutela reale almeno a partire dal momento in cui l’acquisto
è effettuato ad opera del mandatario».
Ma, a parte il dubbio che la novella si occupi
veramente del mandato senza rappresentanza e della causa fiduciae, tutto
quanto si può ricavare (e
con una certa fatica!) dall’art. 2645-ter
c.c. – come si è visto – è l’ammissibilità di un trasferimento
strumentale ad un vincolo e non certo quella di un vincolo strumentale ad un
(ri)trasferimento. Il vincolo di cui si discute, infatti, per la sua
intrinseca temporaneità non può esaurirsi se non in un impiego
del bene perché il suo reddito realizzi scopi meritevoli di tutela
denunziati nell’atto costitutivo: tale impiego non può dunque risolversi
un un’attribuzione del diritto dominicale (o di altri diritti reali) una
volta esaurita la funzione per cui il vincolo era stato creato.
Rimane pertanto evidenziata un’ulteriore ragione di distinzione della
fattispecie descritta dall’art. 2645-ter
c.c. rispetto al trust, nel
quale, come già ricordato, il fenomeno del ritrasferimento al settlor o del trasferimento ad un
soggetto distinto dal trustee
costituisce un elemento naturale del trust
non autodichiarato. Un elemento che peraltro viene sovente a porre, con
riguardo alla nostra legislazione, seri problemi di compatibilità con
taluni istituti del diritto successorio (e di ammissibilità stessa del trust, ai sensi dell’art. 15 della
Convenzione de L’Aja): la clausola di ritrasferimento, se legata alla
morte del trustee, potrebbe invero
incorrere in nullità per violazione del divieto dei patti successori e,
se contenuta in una disposizione mortis
causa, per violazione delle regole che vietano, in linea di massima, la
creazione di un ordo successivus.
In definitiva, dovrà dirsi che il vincolo di cui si
discute, per la sua intrinseca temporaneità, non può esaurirsi se non in un impiego del bene
perché il suo reddito (o il suo uso temporaneo) realizzi scopi
meritevoli di tutela denunziati nell’atto costitutivo: tale impiego non
può dunque risolversi un un’attribuzione del diritto dominicale (o
di altri diritti reali) a vantaggio del beneficiario, una volta esaurita la
funzione per cui il vincolo era stato creato.
Ma escludere l’idoneità dello strumento ex art. 2645-ter c.c. ad operare trasferimenti di diritti, magari in deroga ai
principi che vietano i patti successori o la sostituzione fedecommissaria, non
significa ancora negare che la disposizione possa giocare un ruolo importante,
tanto nella fase fisiologica, che in quella patologica del rapporto coniugale.
Questo è precisamente il tema che forma oggetto del presente scritto.
11. Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e fondo patrimoniale.
Iniziando dunque dal ruolo che l’art. 2645-ter c.c. può svolgere nella fase fisiologica del rapporto
coniugale, v’è da chiedersi se il vincolo di destinazione
contemplato dalla norma in esame possa costituire una sorta di succedaneo del fondo patrimoniale, il che
comporta necessariamente un raffronto tra i due istituti.
Per assolvere a funzioni analoghe a quelle descritte
dagli artt. 167 ss. c.c., invero, il vincolo ex art. 2645-ter c.c.
dovrebbe essere creato,
dai coniugi o da terzi, a beneficio
della famiglia, cioè a dire
di quella determinata famiglia costituita dai coniugi e dai figli nati e/o
nascituri. Peraltro, come appare evidente dalla lettura dell’art. 2645-ter c.c., la destinazione va necessariamente disposta a
favore di uno o più
soggetti determinati. Ad avviso di chi scrive, la meritevolezza
dell’interesse, per le ragioni
solidaristiche
lumeggiate sopra, è di tale evidenza da consentire anche di collocare la
famiglia nel suo complesso tra uno di
quegli «altri enti»
cui fa richiamo la norma citata, magari valorizzando quell’indirizzo che
ormai unanimemente considera tanto la famiglia legittima come quella di fatto
quali «formazioni
sociali» riconosciute dall’art. 2 Cost.
E’ chiaro che la soluzione, la quale individua
come beneficiario del vincolo di destinazione la famiglia nel suo complesso (ed analogo discorso potrebbe
valere, ovviamente, per la famiglia
di fatto), eviterebbe la necessità di un riferimento specifico ai membri attuali del
nucleo in considerazione, e, conseguentemente, il ricorso a non agevolmente
ipotizzabili atti di revoca e/o modifica, qualora il nucleo medesimo avesse ad
ampliarsi o ridursi.
Ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. sarà quindi ipotizzabile la costituzione di un vincolo
nell’interesse della famiglia più «forte» di quello da fondo patrimoniale, per via dell’opponibilità
nei confronti di tutti i creditori dei coniugi, anche a prescindere dalla ricorrenza delle condizioni,
per così dire, «soggettive»
descritte dall’art. 170 c.c., nonché per la diversa ripartizione
dell’onus probandi delle condizioni «oggettive».
Art. 2645-ter
c.c. |
Art. 170 c.c. |
(…)
I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la
realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di
esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo
per debiti contratti per tale scopo. |
170.
Esecuzione sui beni e sui frutti.
— L’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non
può avere luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati
contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia. |
La formulazione dell’art. 170 c.c., invero,
impone, per l’opponibilità del vincolo al creditore, non solo
l’obiettiva estraneità del credito ai bisogni della famiglia, ma anche la conoscenza,
in capo al creditore, di tale
estraneità. Stato soggettivo, questo, il cui onere probatorio ricade
sul debitore.
Cfr.
da ultimo Cass., 15 marzo 2006, n. 5684. V. inoltre, per la giurisprudenza di
merito, Trib. Parma, 7 gennaio 1997, in Nuova giur. civ. comm., 1998,
I, p. 31, con nota di Mora. |
Al contrario, l’art. 2645-ter
c.c. si limita a stabilire che «I beni conferiti e i loro frutti possono
essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire
oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo
comma, solo per debiti contratti per tale scopo».
Ciò significa, in primo luogo,
·
che sul debitore non graverà l’onere di fornire
alcuna prova (e sovente si tratta di vera e propria probatio diabolica) sullo stato soggettivo del creditore al momento della nascita
del rapporto obbligatorio e, in secondo luogo,
·
che spetta al creditore
dimostrare che il debito è stato contratto «per la realizzazione del fine di destinazione», posto che qui
tale fatto viene descritto in
positivo, quale elemento costitutivo della fattispecie rappresentata
dalla realizzazione in executivis
della pretesa creditoria, laddove l’art. 170 c.c. si riferisce ad un elemento impeditivo (descritto in
negativo: «l’esecuzione … non può avere
luogo…»), che individua inevitabilmente il debitore quale soggetto
onerato.
Per queste ragioni non appaiono condivisibili le
affermazioni di chi sostiene che la norma in tema di destinazione è analoga all’art. 170 c.c. Tesi, questa,
che può accettarsi,
a tutto concedere, solo limitatamente ai crediti nascenti ex delicto,
in relazione ai quali l’obbligazione nasce indipendentemente dalla
conoscenza o conoscibilità del vincolo di destinazione, oltre che al di
fuori di qualsiasi scelta del creditore, mancando una situazione affidante che giustifichi la limitazione della
responsabilità.
Come osserva Di
Sapio, op. loc. ultt. citt.,
«Il creditore non sceglie nulla. Subisce
un danno ingiusto. Se potesse scegliere, ragionevolmente sceglierebbe
dell’altro: che il fatto illecito non si verifichi». |
Così, pur in assenza di una norma
analoga all’art. 2447-quinquies, terzo comma, c.c., dovrà affermarsi
che, come per il fondo patrimoniale
Cfr.
Cass., 5 luglio 2003, n. 8991, in Riv.
notar., 2003, p. 1563; Cass., 18 luglio 2003, n. 11230, in Giur. it.,
2004, 1615; Trib. Sanremo, 29 ottobre 2003, in Dir. fam. pers., 2004,
p. 101. |
, così nella fattispecie in esame i beni vincolati rispondono ove
siano fonte di danni, perché, in entrambi i casi, è il
vincolo di destinazione, quale elemento distintivo, a fornire il criterio di
riferimento per stabilire le categorie di creditori interessate dalla vicenda
destinatoria.
Altro effetto è sicuramente quello – lasciando da
parte, ovviamente, l’ipotesi della revocatoria – dell’esclusione dei
beni vincolati dalla
eventuale massa fallimentare, se non in relazione a quei debiti contratti «per la realizzazione
del fine di destinazione»: ciò in forza del generale
riferimento, nella norma in esame, ai «terzi», a prescindere dalla
sede nella quale (e dalle modalità con cui) essi facciano valere i loro
diritti, nonché avuto riguardo a quella già ricordata parte della
disposizione secondo la quale «I beni conferiti e i loro frutti possono
essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono
costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo
2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo».
Tale effetto, derivando direttamente dall’art.
2645-ter c.c., non abbisogna di
alcuna interpretazione analogica dell’art. 46, primo comma, n. 3, r.d. 16
marzo 1942, n. 267, così come modificato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n.
5, che, per il fondo patrimoniale, prevede l’inclusione dei relativi beni
nella massa fallimentare nel caso di ricorrenza delle condizioni di cui
all’art. 170 c.c., inapplicabile, come si è detto, al caso di
specie. Inapplicabile appare inoltre, per la sua specialità,
l’art. 155, r.d. cit., che attribuisce al curatore, nel caso di patrimonio destinato ad uno specifico affare, ex art. 2447-bis c.c., l’amministrazione del patrimonio medesimo.
D’altro canto, per ciò che attiene agli eventuali atti dispositivi, se il
vincolo ai sensi dell’art. 2645-ter
c.c. può sembrare a tutta prima più «debole» di quello da fondo patrimoniale,
avuto riguardo alla non
necessità di autorizzazione giudiziale per gli atti ex art. 169 c.c. in presenza di figli minorenni, è anche vero che la regola
appena citata risulta, quanto meno secondo l’opinione dominante, derogabile.
Inoltre, l’effettuazione della pubblicità del
vincolo rende comunque il vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. opponibile verso ogni subacquirente, a differenza di quello che
accade allorquando i coniugi si siano riservati la facoltà di alienazione dei beni del fondo patrimoniale senza
autorizzazione (ovvero quando, in presenza della necessità di
autorizzazione, quest’ultima sia stata rilasciata), posto che, in tal
caso, il terzo acquista il bene certamente libero dal vincolo.
L’art. 2645-ter
c.c. permette poi
anche la costituzione
di un vincolo
nell’interesse della famiglia
al di là
delle ipotesi in cui l’istituto ex
artt. 167 ss. c.c.
è consentito:
·
a parte la
ammissibilità di un vincolo in favore di un ménage di fatto,
·
il conferente
potrà, anche in relazione ad una famiglia fondata sul matrimonio, derogare a quanto
stabilito dall’art. 171
c.c., stabilendo ad esempio che il vincolo non cessi (ed anzi, questa
sarà la regola, atteso il principio che autorizza una durata dello
stesso per novanta anni o per tutta la vita della persona fisica beneficiaria) in caso di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti
civili del matrimonio, pur
in assenza di figli minori.
12. Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e convenzioni matrimoniali.
Una volta provata l’idoneità, quanto meno
in astratto, della destinazione di uno o più beni, ai sensi
dell’art. 2645-ter c.c., a
realizzare gli interessi di un determinato nucleo familiare, tratteggiate le
differenze tra questo tipo di vincolo e quello creato dal fondo patrimoniale,
occorre però inevitabilmente porsi l’interrogativo sul rapporto tra il negozio istitutivo del
vincolo e la categoria
delle convenzioni matrimoniali.
Sul punto sarà appena il caso di premettere che
il problema non avrebbe, con ogni probabilità, neppure ragione di porsi, qualora si
dovesse ritenere di limitare
in via tassativa le convenzioni
matrimoniali a quelle regolate
nel capo sesto del titolo sesto del libro primo del codice. Ma è noto che la
tesi ormai prevalente afferma il carattere atipico delle convenzioni e dei relativi regimi
patrimoniali: se dunque all’autonomia negoziale è concesso di
liberamente dar vita a convenzioni matrimoniali disegnanti regimi diversi da
quelli previsti dagli artt. 159 ss. c.c., a maggior ragione sarà consentito ai coniugi di avvalersi di strumenti negoziali tipici
(ancorché non previsti da norme tipicamente giusfamiliari) per
conseguire il risultato
di ottenere un regime
divergente da quelli legislativamente nominati come tali.
Non sembra che significative obiezioni possano insorgere avuto riguardo
al carattere essenzialmente
unilaterale dell’atto costitutivo del vincolo. La questione
è già stata affrontata dallo scrivente con riguardo al trust, rispetto al quale si era
osservato che le più approfondite trattazioni in materia evidenziano
come – a parte la questione della dinamica contrattuale esistente nel
mondo dei trusts – anche per il
diritto inglese dall’accettazione del trustee
(ancorché eventualmente in forma implicita) non possa prescindersi,
prevedendo del resto l’equity
procedure per sostituire un trustee
che sia mancato e per nominare un altro trustee
qualora quello indicato dal disponente non abbia accettato. Se ne era quindi
concluso che, per diritto italiano, un
accordo che vedesse un coniuge (o un terzo) costituire beni in trust,
nominando trustee l’altro,
andrebbe qualificato alla stregua di un negozio bilaterale e dunque di
una «convenzione
matrimoniale», se diretto alla creazione di un regime
patrimoniale, intendendosi per tale (come, del resto, già specificato
sopra), non solo l’insieme delle regole che
precostituiscono la sorte di una serie indeterminata
d’acquisti (determinabili unicamente ex
post), compiuti dai coniugi, bensì anche l’insieme di quelle
regole che precostituiscono (e qui il fondo patrimoniale docet) l’eventuale separazione patrimoniale di una certa
massa determinata di beni apportati ad onera matrimonii ferenda, oltre che i
principi per la loro amministrazione ed alienazione.
Allo stesso modo potrà dunque riconoscersi
nella creazione del vincolo ex art. 2645-ter c.c., alle condizioni predette, la natura di convenzione matrimoniale, allorquando il
negozio costitutivo nell’interesse della famiglia assuma una struttura
·
bilaterale o
·
plurilaterale (si
pensi alla costituzione di un vincolo su beni di entrambi i coniugi e/o di
terzi, sulla base di un accordo tra tutti i soggetti coinvolti) e pertanto
possa qualificarsi come «convenzione», cioè accordo di due o più soggetti.
Probabilmente alle medesime conclusioni potrà pervenirsi
anche in relazione ad una manifestazione
puramente unilaterale di volontà, posto che la strettissima connessione
esistente tra i concetti di convenzione matrimoniale e di regime patrimoniale
della famiglia (di cui si dirà tra poco) può forse consentire di
ampliare la prima delle due nozioni, al punto da comprendere ogni tipo di atto idoneo,
secondo la legge, a dar vita ad un regime, a prescindere dalla struttura
unilaterale, bilaterale o plurilaterale dell’atto stesso.
L’ostacolo potrebbe
essere, semmai, un altro.
Se, invero, dovesse seguirsi quell’opinione dottrinale secondo cui
la convenzione può dar vita solo ad una scelta tra un regime comunitario o un regime separatista, con assoluta
esclusione di qualsiasi altro tipo di effetto, vuoi reale, vuoi obbligatorio,
non potrebbe esservi spazio per una convenzione matrimoniale che si limitasse
invece a porre, nell’interesse della famiglia, vincoli su beni
determinati, che si trovino già nella titolarità dell’uno
e/o dell’altro dei coniugi o di terzi. Ed in effetti i sostenitori di quella
tesi si vedono, per coerenza,
costretti a negare la natura di convenzione matrimoniale del negozio inter vivos costitutivo di fondo patrimoniale,
così come la natura di regime, propria dell’istituto ex artt. 167 ss. c.c.
Questa tesi, però, appare chiaramente smentita non solo –
se ci si passa l’espressione – dalla «topografia» e dalla «toponomastica»
legislative
Il fondo patrimoniale si trova collocato nel codice tra la parte generale delle
convenzioni matrimoniali
e la comunione legale, all’interno di una sezione posta sullo stesso
piano di quelle dedicate alla comunione legale, alla comunione convenzionale,
alla separazione dei beni e all’impresa familiare. Gli
artt. 167 ss. fanno pur sempre parte del capo sesto (del titolo sesto del libro primo
del codice), intitolato «del regime patrimoniale della famiglia», dopo una parte
generale che, come si è appena detto, è interamente dedicata
alle convenzioni matrimoniali |
, ma anche dal fatto che, per i beni sottoposti a tale vincolo, vigono
regole (di «regime»)
difformi rispetto a quelle valevoli per la comunione legale: il negozio che al
fondo dà vita è pertanto riconducibile alla definizione che del
concetto di convenzione matrimoniale risulta estrapolabile dall’art. 159
c.c., come di quel negozio idoneo a dar luogo ad un regime patrimoniale della
famiglia.
13. Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e regimi patrimoniali della famiglia.
Forma dell’atto costitutivo e norme applicabili.
Il fatto è che occorre intendersi sul concetto di regime: se
per tale si dovesse ritenere esclusivamente la regola che assegna alla proprietà comune o
personale dei coniugi i futuri ed eventuali acquisti, è chiaro
che la convenzione ex artt. 167 ss.
c.c. non apparirebbe idonea all’uopo, posto che il vincolo del fondo
– e, oggi, quello ex art. 2645-ter c.c. – non può per
definizione costituirsi se non su beni predeterminati.
Seguendo dunque il principio secondo cui la
convenzione matrimoniale è necessariamente fonte di un regime
patrimoniale della famiglia (arg. ex
art. 159 c.c.), se ne dovrebbe concludere che tale non potrebbe essere l’accordo diretto a
costituire un fondo patrimoniale. Ma la disciplina della comunione legale
dimostra che il concetto di «regime» non si esaurisce nella regola del coacquisto; essa
si risolve anche in una serie di precetti e di vincoli
che vengono ad influenzare la «vita» stessa dei beni nel corso dell’unione
matrimoniale: dall’amministrazione
all’alienazione, al pignoramento e, più in generale, alle vicende
che coinvolgono terzi creditori e/o aventi causa.
E puntuale giunge, anche sul punto, la conferma
dall’analisi storica, dalla quale si ricava che l’espressione régime (dal latino regere:
governare, amministrare), utilizzata
per secoli in Francia per contrapporre il régime
en communauté (proprio delle regioni di droit coutumier) a quello dotal
(caratteristico delle regioni di droit
écrit), e dunque nell’accezione, generalissima, di
«regola», dopo la codificazione napoleonica venne intesa dalla
dottrina come «l’ensemble des règles qui régissent
l’association conjugale quant aux biens».
Così Laurent,
Principes de droit civil, XXI,
Bruxelles, 1878, p. 8. |
Regole
che, come icasticamente posto in evidenza dalla dottrina contemporanea d’Oltralpe,
attengono non solo ad una question de
propriété, ma anche ad una question de
pouvoirs.
[1] Cfr. Flour e Champenois, Les
régimes matrimoniaux, Paris, 1995, p. 5. |
Se così stanno le cose, è evidente che
anche la convenzione costitutiva
del fondo patrimoniale, in quanto diretta a dettare regole speciali di amministrazione, vincoli e «vita» di beni della famiglia, in
(parziale) deroga ai principi propri della comunione (o della separazione dei
beni), viene a costituire proprio uno di quei possibili negozi in deroga al
regime legale che l’art. 159 c.c. raggruppa sotto l’espressione
«diversa convenzione».
Ne discende dunque ulteriormente che, per identiche ragioni,
alle stesse conclusioni deve pervenirsi con riguardo ad un vincolo costituito ex art. 2645-ter c.c. nell’interesse della famiglia.
Riconosciuta la natura di
convenzione matrimoniale propria dell’atto costitutivo di un vincolo di
destinazione in favore di una determinata famiglia, dovrà
ulteriormente concludersi che, ai sensi dell’art. 48 l. notar., così come riformato
dall’art. 12, lett. b) e c), l. 28 novembre 2005, n. 246, l’atto
richiederà, per la sua validità, non solo la forma dell’atto pubblico,
ma anche la presenza di
due testimoni.
Inoltre, al negozio saranno applicabili le norme di
cui agli artt. da 160 a
166-bis c.c., il che non
dovrebbe determinare insormontabili problemi di coordinamento, se si eccettua
la questione, indubbiamente seria, della «concorrenza» tra il sistema pubblicitario
(contraddittoriamente) disciplinato dagli artt. 162, quarto comma, e 2647 c.c.,
da un lato, e quello, incontrovertibilmente imperniato sulla trascrizione con
effetti di pubblicità dichiarativa, di cui all’art. 2645-ter c.c., dall’altro.
14. La costituzione di un vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. su beni in comunione legale o
convenzionale, ovvero su beni costituiti in fondo patrimoniale.
L’eventuale
costituzione di
vincoli ex art. 2645-ter c.c. (vuoi nell’interesse della famiglia, vuoi di
terzi) su beni in
comunione legale costituisce sicuramente atto di straordinaria amministrazione, con conseguente
applicabilità degli artt. 180 ss. c.c. ed in particolare del rimedio
dell’annullabilità dell’atto, ex art. 184 c.c., se compiuto senza il necessario consenso del
coniuge.
Peraltro potrebbe revocarsi in dubbio la stessa
ammissibilità di un’operazione diretta a vincolare beni della
comunione legale per
effetto di un atto posto in essere da entrambi i coniugi, nella veste di
«conferenti», alla luce della tesi che contesta la possibilità di estromettere
singoli beni dalla comunione, durante la vigenza di quest’ultima. Il risultato
dell’operazione sarebbe invero costituito dall’assoggettamento di uno o più
beni, destinati a rimanere di proprietà comune dei coniugi, a regole diverse da quelle proprie della comunione legale.
L’argomento appare strettamente connesso alla vexata
quaestio dell’ammissibilità di un rifiuto preventivo del coacquisto ex lege
previsto dall’art. 177 lett. a), d) e cpv. c.c., controversia rinfocolata
dall’ultima decisione di legittimità sul tema che, andando di
contrario avviso rispetto ad un precedente del 1989, si è spinta ad
affermare che, manente communione,
«il coniuge non può rinunciare alla comproprietà di singoli
beni acquistati durante il matrimonio (e non appartenenti alle categorie
elencate nell’art. 179, co. 1°, c.c.) salvo che sia previamente o
contestualmente mutato, nelle debite forme di legge e nel suo complesso, il
regime patrimoniale della famiglia».
Cass.,
27 febbraio 2003 n. 2954, in Foro it.,
2003, I, c. 1039, con nota di De Marzo;
in Riv. notar., 2003, II, p. 412,
con nota di Lupetti; in Fam. dir., 2003, p. 559, con nota di
F. Patti. Per ulteriori
richiami e approfondimenti v. Oberto,
Lezioni sull’oggetto della
comunione legale, § III.
19, 20, disponibile al sito web
seguente: http://giacomooberto.com/lezionisucomunione/lezionisuoggettocomunionesommario.htm |
Rinviando ad altra sede la critica di tale
opinabilissima conclusione, basterà dire che, qualora essa dovesse
venire trasposta alla materia qui in esame, dovrebbe ritenersi inibito – sempre, ovviamente,
nell’ottica, da chi scrive non condivisa, della Cassazione – ai coniugi in comunione
di vincolare uno o più beni del patrimonio comune, se non previa stipula di
convenzione di passaggio al regime di separazione.
E’ innegabile infatti che la sottoposizione di beni al vincolo, pur senza espropriare i coniugi
della contitolarità del diritto dominicale sui beni stessi,
sottrarrebbe questi ultimi al regime proprio della comunione legale (si pensi
alle norme in tema di amministrazione e di rapporti con i creditori, tanto
comuni che personali dei coniugi), così determinandone
una forma di
«estromissione»
dalla massa soggetta all’applicazione degli artt. 177 ss. c.c.
Lo stesso
discorso dovrebbe valere anche in relazione alla comunione convenzionale, per lo meno con
riguardo ai beni che formerebbero
comunque oggetto della comunione legale. Con riferimento a questi
ultimi, infatti, l’art. 210 c.c. vieta che si predispongano norme
d’amministrazione difformi da quelle ex
artt. 180 ss. c.c. Il risultato sarebbe quindi ottenibile solo mediante
estromissione di tali beni dalla comunione. Per questo motivo sarebbe con ogni
probabilità nulla
una convenzione che volesse sottoporre
al vincolo ex art. 2645-ter c.c. i beni (immobili o mobili
registrati) di futura acquisizione destinati a ricadere in comunione legale o
convenzionale.
Per quanto riguarda invece i beni già caduti in comunione convenzionale,
ma non interessati dal limite posto dall’art. 210 c.c. (si pensi a
quelli, per esempio, di cui all’art. 179, lett. a), c.c.), non dovrebbero sussistere
problemi di sorta, non potendosi paventare qui la possibilità
– prospettata in relazione al trust
familiare – di una violazione dell’art. 166-bis c.c. per la convenzione che, «ampliando l’oggetto
della comunione convenzionale, attribuisca, in relazione a beni diversi da
quelli che avrebbero formato oggetto di comunione legale, il potere di
amministrazione al coniuge che non sia il proprietario del bene conferito nella
comunione convenzionale».
In proposito sarà il caso di ribadire che,
qualora si supponga che la convenzione sia del tipo «ampliativo»,
ciò significa che il coniuge
(eventualmente) unico amministratore è contitolare della proprietà sui beni
che amministra. L’ipotesi è dunque diversa da quella
«paradigmatica» della dote che, come si è visto in altra
sede, è caratterizzata da un completo «scollamento» tra
titolarità del diritto reale e potere di amministrazione sui relativi
beni. Ne consegue che, ad avviso dello scrivente, i coniugi in regime di comunione convenzionale potranno
senz’altro vincolare beni che non avrebbero fatto parte della comunione
legale, prevedendo quale beneficiario la famiglia, ovvero anche uno solo dei
suoi membri (oltre che, ovviamente, terzi familiari e/o estranei), senza
curarsi in modo alcuno delle regole in tema di amministrazione della comunione
legale.
La costituzione
di un vincolo ex art. 2645-ter c.c. su beni già costituiti in fondo patrimoniale
presuppone la previa estinzione
del vincolo ex artt. 167 ss. c.c. L’operazione
necessita dell’autorizzazione
ex art. 169 c.c., qualora essa non sia stata esclusa dal
titolo costitutivo. Al riguardo potrà soccorrere la giurisprudenza in
tema di trust, con particolare
riguardo a quella decisione di merito
Cfr.
Trib.
Firenze, 23 ottobre 2002, in Trusts att. fid., 2003, p. 406. |
che ha respinto un ricorso
tendente a consentire lo scioglimento anticipato del fondo patrimoniale
affinché i beni in esso inclusi fossero vincolati nel trust.
La decisione poggia sul rilievo secondo cui, nonostante l’analogia di effetti tra trust e fondo patrimoniale, al
potere di disposizione del trustee non veniva posto alcun limite né,
conseguentemente, onere di richiedere autorizzazione giudiziale (come invece
richiesto, nel caso di specie, ai sensi dell’art. 169 c.c. nel caso del
fondo patrimoniale). E’ evidente che, in una situazione analoga, anche la
sottoposizione a vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. di
beni oggetto di fondo patrimoniale (in caso il titolo costitutivo non
escludesse la necessità dell’autorizzazione ex art. 169 c.c.) priverebbe il vincolo delle garanzie proprie del regime autorizzativo previsto dalla
norma in esame e pertanto non potrebbe essere autorizzata.
15. Vincoli di destinazione e crisi coniugale: i
rapporti con il trust.
Passando dalla fase
fisiologica a quella patologica
del rapporto matrimoniale vi è ora da prendere in considerazione il
ruolo che la norma sui vincoli di destinazione potrebbe giocare nella crisi coniugale. Lo
spunto appare avvalorato dalla considerazione dei rilievi critici che lo scrivente ha avuto modo di
rivolgere all’utilizzo
del trust in questo delicato settore,
secondo quanto invece suggerito da diverse voci.
Così, per
esempio, non è mancato chi ha affermato che il trust potrebbe
costituire uno strumento di estrema importanza allo scopo di intervenire
efficacemente nella genesi della crisi della coppia, e quindi, nel momento antecedente
l’inizio del procedimento
di separazione o divorzio o in un secondo
momento, successivo
alla conclusione di questi procedimenti, una volta che la volontà delle
parti (in sede consensuale) o la determinazione del giudice (in sede
contenziosa) abbiano imposto un contributo di mantenimento o un assegno a
carico di un coniuge.
Cfr.
Nassetti, Il trust: applicazioni pratiche (Aggiornamento in pillole per il
consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bologna – Relazione
tenuta a Bologna il 16 febbraio 2001), disponibile all’indirizzo web seguente: http://www.filodiritto.com/diritto/privato/civile/IlTrustApplicazionipratiche.htm. |
L’effetto segregativo proprio del trust
consentirebbe di opporre
il vincolo ai creditori del disponente, così garantendo il pagamento delle
prestazioni periodiche in favore del coniuge e/o alla prole anche di contro a
possibili azioni esecutive di terzi, fatte salve, beninteso, eventuali domande
revocatorie. A ciò s’aggiunga che il trasferimento del bene al trustee, nel caso di immobili, titoli
azionari o altri beni soggetti a forme di pubblicità, comporta
formalità che da sole impediscono atti di disposizione illegittimi:
chiunque sia il trustee (il coniuge
obbligato o un terzo) sarebbero pertanto prevenuti atti di disposizione in
danno degli interessi protetti.
Ove si dovesse ammettere il trust interno e, in ogni caso, per il trust creato in
situazioni caratterizzate dalla obiettiva presenza di un elemento di
estraneità, siffatto vincolo potrebbe essere costituito nell’ambito dello stesso negozio
di separazione consensuale, di separazione di fatto, o di divorzio su domanda
congiunta: le parti verrebbero così a porre in essere lo
strumento attraverso il quale determinare le modalità di adempimento
degli obblighi ex artt. 155 ss., 156
c.c., 5 e 6 l. div.
D’altro canto e
sempre, ovviamente, sulla base di un accordo inter partes, un
trust potrebbe rappresentare il mezzo
per garantire l’esecuzione di obblighi di mantenimento e di assegni
già determinati, precedentemente, dalle parti medesime (in sede, per l’appunto, di
separazione consensuale omologata, di separazione di fatto, ovvero di divorzio
su domanda congiunta, ovvero ancora in sede di crisi coniugale contenziosa).
Per questa specifica ipotesi andrà tenuto presente che, secondo l’opinione ormai prevalente in
dottrina e giurisprudenza, le condizioni della separazione e del divorzio ben possono essere mutate dai coniugi senza dover ricorrere ad
alcun tipo particolare di procedura
giudiziale.
Si è poi anche
rimarcato che «l’istituzione di un trust avrebbe una valenza estremamente garantista relativamente ai diritti
alimentari o di mantenimento vantati da coniuge e prole, in quanto consentirebbe di isolare le risorse del coniuge
obbligato al mantenimento, o agli alimenti, affinché non possano essere distolte
dall’adempimento di queste obbligazioni». Il primo positivo effetto
sarebbe infatti quello di evitare
qualsiasi conflitto fra i creditori del coniuge obbligato e i creditori della
prestazione alimentare, posto che questi ultimi sarebbero pienamente
garantiti. Siffatte indicazioni sono già state recepite nella prassi,
che annovera verbali di separazione omologati, contenenti la previsione di trusts.
Ora, se non vi
è dubbio che il trust –
sempre, ovviamente, a condizione che lo si ritenga ammissibile nella versione
«interna» e salvo l’eventuale esperimento dei rimedi
revocatori – consente il vantaggio di una separazione patrimoniale, in
grado di tutelare adeguatamente i creditori delle prestazioni postmatrimoniali
nei confronti dei possibili creditori dell’obbligato, altrettanto condivisibile non appare l’affermazione secondo la quale
l’ordinamento civilistico italiano non offrirebbe alternative
all’istituto di matrice anglosassone per il raggiungimento di siffatta
finalità di garanzia del coniuge separato e della relativa prole.
16. I vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. nel sistema delle garanzie delle
prestazioni postmatrimoniali.
Si è avuto modo di
evidenziare in altre sedi quanto possa dirsi articolato il complesso sistema di garanzie apprestato
dall’ordinamento per l’adempimento degli obblighi derivanti dalla
separazione o dal divorzio: basti pensare
·
all’obbligo
di prestare idonea
garanzia reale o personale,
·
all’iscrizione
dell’ipoteca
giudiziale ai sensi dell’articolo 2818 c.c.,
·
al sequestro di parte dei
beni del coniuge obbligato,
·
all’ordine ai terzi, tenuti a
corrispondere anche periodicamente somme di danaro all’obbligato, che una
parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto (ex artt. 156, quarto, quinto e
sesto comma, c.c., 8,
primo, secondo e settimo comma, l. div.),
·
alla distrazione dei redditi
ed all’azione diretta esecutiva ex art. 8, terzo, quarto, quinto e sesto comma, l.
div.,
·
al decreto ex art. 148, secondo, terzo, quarto e quinto comma, c.c.,
·
ai rimedi (malamente)
apprestati dall’art. 709-ter
c.p.c.
In proposito, va detto
che il rilievo secondo il quale i limiti del sistema di garanzia così
delineato emergerebbero proprio nelle ipotesi in cui il soggetto debitore non
sia, invece, intestatario di beni, non vale ad attribuire alcuna specifica ragione
di preferenza all’istituto del trust:
in mancanza, invero, di una titolarità di beni in capo al coniuge
obbligato, non sarebbe evidentemente possibile neppure l’istituzione di
un trust o il conferimento di beni da
parte di quest’ultimo.
A ciò s’aggiunga
che nulla esclude che, in considerazione del carattere negoziale (e, per quanto attiene agli
accordi di carattere patrimoniale, contrattuale), delle intese in discorso, possano trovare
applicazione le garanzie
e gli strumenti di induzione all’adempimento
previsti in generale dal codice:
·
dalla fideiussione,
·
all’ipoteca volontaria (si pensi alle
intese concluse nell’ambito di una separazione di fatto, ove l’art.
2818 c.c. non può, evidentemente, trovare applicazione),
·
alla clausola penale,
·
alla caparra confirmatoria.
Se, dunque, il vero
problema è quello di poter vincolare un determinato patrimonio in vista della soddisfazione degli
obblighi oggetto del contratto della crisi coniugale, va preso atto che ai «tradizionali»
rimedi cui si è appena accennato viene ora ad aggiungersi lo strumento
delineato dall’art. 2645-ter
c.c., di sicura applicazione (anche nelle situazioni non caratterizzate
dalla presenza di un elemento di internazionalità) ai casi di specie.
L’intento di garantire
l’adempimento delle obbligazioni assunte nella predetta sede, o di
sopperire alle
necessità abitative del residuo nucleo familiare, appare infatti
senza dubbio meritevole di
tutela.
A differenza
di quanto accade con il trust,
non sarà però possibile, ad avviso dello scrivente, prevedere ex
art. 2645-ter c.c. un trasferimento
del bene al beneficiario finale. Ciò che del resto, anche rispetto al trust
viene sovente a porre, con riguardo alla nostra legislazione, seri problemi di compatibilità con
taluni istituti del
diritto successorio (e di ammissibilità stessa del trust, ai sensi dell’art. 15
della Convenzione de L’Aja): la clausola di ritrasferimento, se
legata alla morte del trustee,
potrebbe invero incorrere in nullità
per violazione del divieto dei patti successori e, se contenuta in una disposizione mortis causa, per violazione del
principio che fa divieto di creare nelle successioni un ordo successivus.
17. La forma di costituzione dei vincoli ex art. 2645-ter c.c. nella crisi coniugale. Il trattamento
fiscale dell’atto.
L’art. 2645-ter c.c. prevede che il vincolo di
destinazione sia costituito per atto pubblico, senza peraltro specificare che debba necessariamente trattarsi
di atto notarile.
Il fatto che l’art. cit. non menzioni espressamente l’intervento di
un notaio consente di fare tesoro di quella evoluzione dottrinale e giurisprudenziale, che, a partire dai
lavori dello scrivente, ha portato a riconoscere natura a tutti gli effetti di atto pubblico ex art. 2699 c.c. al verbale
d’udienza di separazione consensuale o di divorzio su domanda congiunta.
Dovrà dunque
ritenersi consentito, nell’ambito
di un contratto della crisi coniugale (e dunque a patto che le relative
intese possano intendersi alla stregua di condizioni della separazione o del divorzio), proporre al cancelliere, sotto la direzione (art. 130
c.p.c.) del giudice
(vuoi monocratico, vuoi collegiale, a seconda dei casi), la creazione di un vincolo
nell’interesse di uno dei coniugi e/o dei figli (maggiorenni o
minorenni che siano), o anche, a seconda dei casi, di taluni soltanto di essi.
Il tutto,
naturalmente, a condizione che il complesso delle condizioni concordate soddisfi il canone irrinunciabile dell’interesse dei minori
eventualmente coinvolti e sul presupposto (non richiesto tanto dalla legge,
quanto dalle necessità pratiche e dalla complessità del sistema)
che le parti stesse siano sul punto adeguatamente assistite e consigliate. Il relativo
verbale
costituirà dunque titolo
idoneo per la trascrizione, anche ai sensi dell’art. 2645-ter c.c.
Da un punto di vista più generale,
anzi, non è escluso che – anche al di fuori dei procedimenti di separazione
e di divorzio – il cancelliere,
sotto la direzione del giudice, possa ricevere la costituzione di un vincolo di destinazione,
purché siffatta costituzione s’inquadri in una di quelle attività negoziali
che il cancelliere è espressamente chiamato dalla legge a documentare.
Ci si intende qui riferire
in particolare al verbale
di conciliazione giudiziale
(e in proposito si noti che l’art. 185 c.p.c. prevede, al capoverso, che
in caso di conciliazione giudiziale, si formi «processo verbale della convenzione conclusa»; cfr.
inoltre art. 88 disp. att. c.p.c.), il quale ben potrà contenere un
siffatto negozio, nel quadro di
un più ampio accordo transattivo, sempre a condizione, beninteso,
che il vincolo risponda ad interessi meritevoli di tutela, secondo quanto specificato altrove.
Così, ad esempio,
si potrà stabilire che l’attore rinunzia agli atti processuali ed
all’azione, in
cambio dell’impegno del convenuto a costituire su determinati
immobili un vincolo di
destinazione in favore di una certa fondazione benefica o del figlio
disabile dell’attore medesimo.
Sotto il profilo fiscale vi
è, infine, da ribadire che le attribuzioni patrimoniali operate nel
quadro di un ipotetico trust
postconiugale (ovviamente, sempre a condizione che si ritenga ammissibile
– come invece qui si nega – il trust
interno) ricadrebbero comunque, ove «relative» ad un procedimento di separazione o divorzio,
sotto il disposto dell’art. 19, l. 6 marzo 1987, n. 74, esteso, come noto
dalla Corte costituzionale alla separazione legale.
Cfr. Corte cost., 10 maggio
1999, n. 154, in Foro it., 1999, I,
c. 2168; in Giur. it., 1999, p.
2187; in Riv. notar., 2000, II, p.
657, con nota di Lucariello. |
Identiche argomentazioni valgono
sicuramente anche per gli atti
costitutivi di vincoli ex art. 2645-ter c.c., nonché per gli
eventuali trasferimenti ad essi collegati, se e nella misura in cui
questi si ritengano ammissibili. Il tutto, naturalmente, a patto che tali
negozi possano dirsi parte
delle condizioni della separazione consensuale (o
«consensualizzata»), ovvero del divorzio su domanda congiunta (o su
conclusioni congiunte delle parti) e, come tali, per l’appunto,
«relativi» a siffatte procedure.
18. Alcuni
casi pratici in materia di utilizzo del trust e del vincolo ex art. 2645-ter c.c.
nell’ambito della crisi coniugale.
Venendo
ora ad esaminare il profilo casistico, potrà dirsi che, sempre in
relazione alla crisi coniugale, si è poi ipotizzato un caso
pratico relativo ad una disposizione volta a consentire ad un figlio, maggiorenne ma non
autosufficiente e convivente con la madre, di proseguire gli studi dopo il
conseguimento del diploma di maturità, in una situazione in cui,
avvenuta l’adozione dei provvedimenti provvisori da parte del presidente
del tribunale investito del giudizio di separazione o divorzio e disposta la
prosecuzione della causa avanti il giudice istruttore, la moglie pretenda di
veder riconosciuto per sé e per il figlio un assegno di mantenimento
più consistente.
Cfr. Carrera,
Disposizioni di trust in sede di separazione o divorzio per
mantenere un figlio agli studi, relazione presentata al
«Laboratorio di trust» organizzato dal «Gruppo torinese del
trust», tenutosi a Torino il 21 novembre 2003 (testo cortesemente messo
a disposizione dello scrivente in forma elettronica dall’Autrice). |
Qui
il marito potrebbe essere disposto ad accedere alle richieste relative al
figlio, pur non essendo incline a concedere per questo alla moglie un assegno
più sostanzioso. In siffatta situazione si è prospettata
l’istituzione di un trust
autodichiarato da
parte del marito, con previsione, in caso di sopravvenuta impossibilità
in capo al trustee (cioè il marito
stesso) di una sostituzione di quest’ultimo, magari individuandosi
l’eventuale sostituto nella persona di un professionista, ovvero del
legale fiduciario che lo assiste nella causa di separazione o divorzio. Il
beneficiario, in questo caso identificato fin dal momento
dell’istituzione del trust nella
persona del figlio, sarebbe il destinatario immediato delle
utilità e dei valori prodotti dalle somme «segregate» in trust, e sarebbe beneficiario nei limiti
prefissati nell’atto istitutivo. Egli diverrebbe così titolare di
un diritto di natura personale e che gli consentirebbe di agire nel caso in cui
il trustee non ottemperasse alle prescrizioni contenute nell’atto
istitutivo; egli potrebbe anche richiedere all’autorità
giudiziaria la revoca del trustee inadempiente.
Il termine
di durata proposto, sempre nella ipotesi pratica prospettata,
coinciderebbe nella specie con quello consono alla durata del corso di studi
universitari già prescelto dal figlio, con la possibile estensione ad
uno o due anni in più, per andare incontro alle eventuali
difficoltà o ritardi che il ragazzo dovesse accusare. Allo spirare del
termine o al raggiungimento dello scopo (conseguimento della laurea) il trust dovrebbe trovare la sua fine
fisiologica, fatta salva la possibilità di inserire nell’atto
istitutivo una clausola di ultrattività del trust, nel limite del
patrimonio conferito, per soddisfare le esigenze di frequentazione di scuole di
specializzazione, di corsi avanzati, master o quant’altro. Nel
caso il trust dovesse essere
istituito nelle more fra il conseguimento del diploma di scuola superiore e
l’iscrizione ad un corso universitario, si è altresì
proposto di sottoporre il trust a condizione sospensiva, tale per cui,
qualora il figlio dovesse mutare orientamento e non iscriversi
all’università, il trust non esplicherebbe alcuna
efficacia.
Parimenti, si è proposto l’inserimento di
una clausola risolutiva
per le seguenti evenienze:
· il figlio interrompe il ciclo di studi;
· il figlio consegue anzitempo al completamento degli
studi l’indipendenza economica (ad esempio trova un lavoro);
· il figlio o la ex
moglie, convengono il marito in giudizio per ottenere la modifica delle
condizioni della separazione o del divorzio ovvero, maturato il termine per la
proposizione della domanda di divorzio, avanzano nuove pretese che costringono
all’apertura di un nuovo contenzioso.
Con riferimento a tale ultima specifica previsione
andrà però subito detto che questa potrebbe essere ritenuta inconciliabile
con la consolidata giurisprudenza di legittimità che, come noto, non
consente la conclusione di intese preventive in vista del divorzio, in
considerazione di un supposto «commercio dello status di coniuge».
Sempre secondo la proposta citata, accanto al
beneficiario diretto delle somme «segregate» in trust (il
figlio), potrebbe esservi la figura di un beneficiario finale che, nel nostro caso, potrebbe
essere ancora il figlio, nel caso in cui il padre desiderasse premiarlo e
lasciargli definitivamente l’eventuale patrimonio residuato al
conseguimento dello scopo del trust;
oppure, potrebbe essere il disponente stesso, che in tal modo rientrerebbe
nella piena disponibilità del proprio patrimonio.
* * *
Altro
caso pratico in materia è quello che ha formato oggetto di verbale di
separazione consensuale omologata dal Tribunale di Milano con decreto Trib.
Milano, 23 febbraio 2005.
Il provvedimento è
altresì edito in Fam. pers. succ.,
2005, p. 302 ss., con nota critica di Costanza,
Il trust una soluzione non sempre appropriata, la quale, oltre a sollevare
perplessità sulla possibilità di costituire trusts auto-dichiarati, al di fuori dei casi in cui la costituzione
del trust non risieda in uno scopo
caritatevole, osserva che la realizzazione dello scopo del trust rimarrebbe comunque affidata alla fedeltà del trustee, senza che con
l’istituzione del trust siano create
in capo ai beneficiari posizioni reali di diritto all’acquisto della
titolarità del bene vincolato. Per un’analoga decisione v. anche
Trib. Pordenone, 20 dicembre 2005, in Trusts
e att. fiduc., 2006, p. 247 ss.
Qui, nell’ambito
della varie condizioni della separazione, uno dei coniugi, al fine di
provvedere alle esigenze abitative della figlia minore sino a che non
avrà completato il ciclo di studi e raggiunto l’autonomia
economica, istituisce un trust autodichiarato avente ad oggetto un bene immobile.
Tra le varie clausole
si noti la seguente, che potrebbe porre problemi in tema di divieto di patti successori
ed eventuale lesione della
legittima (con riferimento anche all’art. 15
della Convenzione dell’Aja):
|
Al rigurado
potrà notarsi che, ove il trust
si pieghi ad una finalità successoria, una possibile sua interferenza
con il divieto dei patti successori non può dirsi scongiurata per il sol
fatto che una convenzione internazionale ne riconosca
l’operatività anche nel nostro paese: la
Convenzione dell’Aja all’art. 4 fa infatti salve le norme di
diritto interno relative alla validità del testamento o dell’atto
costitutivo del trust. Resta allora
aperta la porta all’operatività virtuale del divieto?
La risposta al
quesito richiede la soluzione di un problema a monte. Se l’art. 458 c.c.
parla di «convenzioni»
ed è intitolato ai «patti», la sua sfera di applicazione, stando ad
un’interpretazionme letterale della norma, dovrebbe non ricomprendere il trust, la cui fonte è un
testamento ovvero un atto unilaterale fra vivi, non già un contratto.
D’altra parte è anche vero che il beneficiary è normalmente al corrente del fatto di essere il
destinatario di un’attribuzione patrimoniale da parte del settlor: potrebbe allora darsi il caso
in cui la costituzione di un trust adombri un patto in frode alla
legge per il fatto di costituire il modo di aggirare il divieto dei
patti successori.
Da notare che sempre il Tribunale di Milano (Trib. Milano, 7
giugno 2006, in Trust e attiv. fiduc., 2006, p. 575 ss., commentato da Monegat, Separazione consensuale dei
coniugi, trust e vincolo del trust
sui beni costituiti in fondo patrimoniale, ivi, 2007, p. 243
ss.) ha ritenuto possibile l’omologa delle condizioni di separazione
personale consensuale dei coniugi con le quali veniva prevista
l’istituzione di un trust al
fine «di ulteriormente segregare i beni conferiti nel fondo patrimoniale
per sottrarli alle proprie vicende personali e successorie e, in generale, per
poter trarre da essi utilità, sia direttamente, sia indirettamente, da
destinare ai bisogni della famiglia». Nella fattispecie dunque il vincolo
nascente dal trust andava a
sovrapporsi a quello costituito con il fondo patrimoniale tanto da essere state
previste regole particolari relativamente all’amministrazione dei beni
oggetto del vincolo nella vigenza del fondo patrimoniale. Al riguardo va
infatti notato che il patto relativo stabiliva testualmente quanto segue:
«Art. 9 Amministrazione del Trust. A. Fintanto che duri il vincolo
nascente dal Fondo patrimoniale 1. Gli atti di amministrazione non richiedono
il concorso del Trustee; 2. Gli atti di disposizione – non richiedono il
concorso del trustee qualora siano preordinati al reimpiego nel Fondo patrimoniale,
– richiedono il previo consenso del Trustee in caso diverso; 3. Gli atti
che gravano o vincolano o sottopongono a garanzia beni inclusi nel Fondo
patrimoniale richiedono il previo consenso del Trustee ».
Di diverso avviso il Tribunale di Firenze che, con il ricordato
provvedimento in data 23 ottobre 2002, rilevata l’insussistenza dei
presupposti legittimanti la modifica delle condizioni di separazione, respinge
il ricorso ai sensi dell’art. 169 c.c., perché, rilevato che i
coniugi non avevano derogato, quanto alla possibilità di procedere
all’alienazione dei beni costituiti in fondo patrimoniale alla disciplina
codicistica (che in presenza di figli minori richiede l’autorizzazione
del Tribunale che può essere concessa solo in caso di necessità o
utilità evidente) e che, al contrario, nessun vincolo formale deve
ritenersi posto al trustee quanto
alla possibilità di porre in essere eventuali futuri trasferimenti dei
beni conferiti, viene ritenuto che il trust
sia istituto privo «di quelle garanzie che, una volta scelta
l’opzione del fondo patrimoniale e non adottata la clausola derogatrice
consentita dall’inciso iniziale dell’art. 169 c.c. (…)
vengono apprestate dal regime autorizzativo vincolato di cui alla richiamata
norma codicistica».
* * *
Un
caso di un certo interesse è quello risolto da Trib.
Milano, 20 ottobre 2002, in una fattispecie veramente caraterizzata (una
volta tanto!) da un elemento
di (reale) estraneità. Nella
specie il giudice italiano, ritenutosi dotato di giurisdizione e facendo
applicazione della legge inglese, ha rimosso dalla posizione di trustees
entrambi i coniugi, sostituendoli
con due professionisti.
Il trust era stato
costitutito in Gran Bretagna su beni ivi situati e per disposizione del giudice
inglese che si era occupato del divorzio tra le parti. La domanda giudiziale
era stata proposta dall’ex marito, che aveva chiesto la decadenza dalla
posizione di trustee della ex moglie
per conflitto di interessi con le beneficiarie (le figlie).
* * *
La prima applicazione pratica
di cui si abbia notizia dell’art. 2645-ter c.c.
alla crisi coniugale è
costuita da Trib.
Reggio Emilia, 26 marzo 2007, in Guida
al dir., 2007, n. 18, p. 58, con nota di Tonelli.
Il Tribunale ha qui
deciso su di un’istanza ex art.
710 c.p.c. di modifica delle condizioni
di una separazione consensuale. In particolare i coniugi volevano sostituire il versamento
d’un assegno
mensile da parte del marito, pari ad € 400,00, per il contributo al
mantenimento dei figli, con il trasferimento della proprietà per intero o per quota di unità
immobiliari, non
già ai figli, ma alla moglie, ancorchè a titolo di
contributo al mantenimento dei figli.
E’ lo stesso collegio a suggerire ai coniugi la
soluzione che fa perno sull’art. 2645-ter
c.c.
I coniugi decidono
quindi di seguire
il suggerimento del
collegio e stabiliscono, come clausola aggiuntiva rispetto a quella che prevede
i trasferimenti immobiliari a vantaggio della moglie, quanto segue:
Sulla base dei
predetti accordi il tribunale emette dunque il seguente dispositivo:
Ora, a prescindere
dalla circostanza che il tribunale, riconosciuta la rispondenza della clausola
all’interesse della prole, avrebbe dovuto, secondo la costante
giurisprudenza di legittimità, dichiarare non luogo a provvedere
sull’istanza, dal momento che è ormai pacificamente assodato che
le intese modificative delle condizioni della separazione, anche per ciò
che attiene alla gestione del rapporto con i figli minori, sono sottratte al procedimento ex art. 710 c.p.c. e non necessitano di alcuna
forma di omologazione,
è interessante soffermarsi brevemente sulle distinte prese di posizione
della decisione relativamente a varie questioni connesse all’applicazione
dell’art. 2645-ter c.c.
(a) Sulla forma:
(b)
Sull’ammissibilità del soddisfacimento dell’obbligo di
mantenimento della prole mediante una prestazione una
tantum o mediante un trasferimento immobiliare:
Ragionamento, questo,
assolutamente condivisibile (tanto più che è tratto dai miei
scritti…). Peccato che però, nel caso di specie, non si discutesse
di una translatio dominii in favore
della prole, ma della madre…
(c) Sulla meritevolezza degli interessi perseguiti:
Al riguardo si citano
svariate decisioni di legittimità, tra cui le seguenti:
Da notare che la giurisprudenza
richiamata concerne sempre ipotesi
di trasferimento di
diritti su immobili alla
prole. In ogni caso, effettuata la necessaria «correzione di
tiro», io non contesto nel modo più assoluto che sia contrario
all’interesse della prole anche il trasferimento in favore del solo altro
genitore, purchè – quando si vuole fare assolvere a tale
trasferimento la funzione di sostituzione dell’assegno per la prole
– siano apposti vincoli del genere di quelli individuati dal tribunale
nella sentenza in esame.
In altre parole
l’art. 2645-ter c.c. consente
una nuova categoria di
trasferimenti: quelli in
favore del coniuge o ex tale (cioè dell’altro genitore), ma nell’interesse della
prole, quale contributo al mantenimento della prole stessa (minorenne o
maggiorenne ma non autosufficiente), laddove sino ad ora la giurisprudenza si
era occupata di atti traslativi in funzione di contributo al mantenimento della
prole, ma disposti in favore della prole medesima.
(d) Sulla causa:
Abbracciata, dunque, la tesi
dello scrivente sulla causa tipica dei contratti della crisi coniugale, la
decisione passa a constatare che la predetta impostazione risulta condivisa da recenti prese di posizione della
Corte Suprema:
(e) Sull’interesse della prole:
(f) Sulla garanzia rispetto agli atti di esecuzione (con
confronto rispetto al fondo patrimoniale):
(g) Sulla ulteriore garanzia,
rappresentata dal vincolo di non alienabilità (ma non era superfluo,
alla luce dell’opponibilità verso i terzi subacquirenti del
vincolo di destinazione, legata alla trascrizione di tale ultimo vincolo???):