Giacomo Oberto

 

TRUST E VINCOLI DI DESTINAZIONE

EX ART. 2645-TER C.C.

NEI RAPPORTI PATRIMONIALI TRA CONIUGI

E NEGLI ACCORDI IN SEDE

DI SEPARAZIONE E DIVORZIO

 

Sommario:

1. I vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. Considerazioni generali sul nuovo istituto.

2. Brevi considerazioni (e persistenti dubbi) sull’ammissibilità del trust interno. Il rilievo meramente internazionalprivatistico della Convenzione de L’Aja.

3. Segue. Trust interno e Convenzione de L’Aja: alcune schematiche considerazioni sulla legge regolatrice.

4. Impossibilità di fondare su disposizioni di diritto interno la segregazione patrimoniale quale fenomeno generale.

5. Trust e negozio fiduciario.

6. L’atto di destinazione ex art. 2645-ter c.c. di fronte al trust interno: prime reazioni e impressioni.

7. Meritevolezza di tutela degli interessi da realizzarsi con l’art. 2645-ter c.c. e causa tipica del trust. Meritevolezza del motivo del negozio di destinazione.

8. Il tipo di meritevolezza di tutela degli interessi da realizzarsi con l’art. 2645-ter c.c.

9. Profilo «statico» e profilo «dinamico»: i rapporti tra vincolo di destinazione ed effetto traslativo dei diritti.

10. Segue. Vicende traslative disposte dall’autonomia delle parti in relazione all’art. 2645-ter c.c. Il trasferimento alla scadenza del vincolo.

11. Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e fondo patrimoniale.

12. Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e convenzioni matrimoniali.

13. Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e regimi patrimoniali della famiglia. Forma dell’atto costitutivo e norme applicabili.

14. La costituzione di un vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. su beni in comunione legale o convenzionale, ovvero su beni costituiti in fondo patrimoniale.

15. Vincoli di destinazione e crisi coniugale: i rapporti con il trust.

16. I vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. nel sistema delle garanzie delle prestazioni postmatrimoniali.

17. La forma di costituzione dei vincoli ex art. 2645-ter c.c. nella crisi coniugale. Il trattamento fiscale dell’atto.

18. Alcuni casi pratici in materia di utilizzo del trust e del vincolo ex art. 2645-ter c.c. nell’ambito della crisi coniugale.

 

 

1. I vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. Considerazioni generali sul nuovo istituto.

 

L’art. 39-novies della l. 23 febbraio 2006, n. 51, di conversione con modifiche del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273 («Recante definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti. Proroga di termini relativi all’esercizio di deleghe legislative»), ha introdotto nel nostro ordinamento l’art. 2645-ter c.c., volto a consentire «atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela».

 

«Gli atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo».

Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter:

http://judicium.it/news/ins_08_04_06/Gazzoni,%20nuovi%20saggi.html 

Oberto, Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze:

http://giacomooberto.com/2645ter/2645ter_e_trust.htm

 

 

Chiunque s’accinga a trattare – anche solo marginalmente e  (come nel caso di specie) senza alcuna pretesa di completezza – il tema degli atti di destinazione ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. non può fare a meno di esordire rivolgendo una severa critica alla tecnica legislativa adottata dalla novella. Una riforma che, come già è stato osservato in dottrina, la nostra cultura giuridica non merita e che, oltre a costituire il punto più basso di un drafting normativo ispirato sempre più a sciatteria e ignoranza dei principi fondamentali, sembra dischiudere le porte ad una «terza fase» dei rapporti tra normativa di fattispecie e normativa pubblicitaria.

Dopo una prima «età dell’oro» (almeno tale sembra, agli osservatori di questo oscuro presente!), nella quale il codice disciplinava, da un lato, gli istituti concernenti le diverse materie nei vari libri di rispettiva competenza e forniva poi le regole pubblicitarie nel titolo primo del libro sesto, venne un’ «età del ferro», nella quale alla creazione di nuovi istituti sostanziali non corrispondeva una (o corrispondeva una non adeguata) disciplina pubblicitaria: le note e tormentate vicende della pubblicità dei regimi patrimoniali della famiglia, così come riformata nel 1975, e del diritto di abitazione sulla casa familiare sono quanto mai emblematiche al riguardo. Infine, ecco sopraggiungere una «terza età» (che, per rispetto nei confronti del lettore, non qualificheremo ulteriormente), nella quale il legislatore fornisce direttamente la disciplina pubblicitaria di istituti che… si è dimenticato di disciplinare (o, per lo meno, di disciplinare in maniera minimamente adeguata e nella sede appropriata)!

Risponde quindi, forse, a verità la constatazione (Gazzoni) secondo cui l’art. 2645-ter c.c. è, «prima ancora che norma sulla pubblicità, e quindi sugli effetti, norma sulla fattispecie, che avrebbe meritato dunque, previa scissione, di figurare in un diverso contesto, di disciplina sostanziale».

       Ma la fattispecie (e una fattispecie di tanto rilievo teorico e pratico!) è così male abbozzata da suscitare immediatamente un’istintiva, viscerale, simpatia per una tesi iconoclasta, quale quella affacciata dalla prima pronunzia di merito contenente (ancorché in obiter) un espresso richiamo alla novella: l’idea, cioè, secondo cui l’art. 2645-ter c.c. non introdurrebbe affatto nel nostro ordinamento un nuovo tipo di negozio di destinazione, ma soltanto «un particolare tipo di effetto negoziale, quello di destinazione (…) accessorio rispetto agli altri effetti di un negozio tipico o atipico cui può accompagnarsi». La norma in esame non conterrebbe dunque alcun indice da cui desumere l’avvenuta creazione di una nuova figura negoziale, non essendone chiara né la natura unilaterale o bilaterale, né il carattere oneroso o gratuito, né la presenza di effetti traslativi o obbligatori.

Cfr. Trib. Trieste, 7 aprile 2006, in Italia Oggi, 20 aprile 2006, p. 52; in Trusts att. fid., 2006, p. 417 ss.; il provvedimento è altresì disponibile al seguente indirizzo web: http://www.filodiritto.com/index.php?azione=visualizza&iddoc=230.

 

Se è vero, però, che la formulazione della norma non é felice né precisa, ciò non sembra sufficiente a consentire all’interprete di ignorare le tracce di disciplina sostanziale (dalla regola in tema di oggetto, a quelle sulla forma, sulla durata, sulla meritevolezza degli interessi, sulla legittimazione ad agire, sull’impiego dei beni e dei frutti e sui rapporti con i creditori) in essa disseminate dal legislatore, sì da obliterarne l’evidente intento di delineare, sia pure in modo tanto rozzo, i contorni di un nuovo istituto giuridico.

 

 

2. Brevi considerazioni (e persistenti dubbi) sull’ammissibilità del trust interno. Il rilievo meramente internazionalprivatistico della Convenzione de L’Aja.

 

Se quanto sopra è vero, si pone dunque il problema di raffrontare tale nuova figura negoziale con l’istituto che sembra, a tutta prima, ad essa più affine, vale a dire con il trust, tanto più che proprio in questa direzione sembra puntare la storia della genesi di questo malriuscito scampolo di prosa legislativa.

In questo senso depone, invero, il fatto che la terminologia pare ispirata ad alcune (peraltro ben più ponderate) proposte di legge della XIV legislatura, che, sotto il titolo, rispettivamente,

·       «Disciplina della destinazione di beni in favore di soggetti portatori di gravi handicap per favorirne l’autosufficienza» (cfr. la proposta contrassegnata dal N. 3972, presentata alla Camera dei Deputati il 14 maggio 2003) e

·       «Norme in materia di trust a favore di soggetti portatori di handicap» (cfr. la proposta contrassegnata dal N. 2733, presentata alla Camera dei Deputati il 10 maggio 2002)

, miravano ad introdurre, a tutela delle persone disabili, la possibilità di dar luogo ad un vincolo assai simile a quello che si attua negli ordinamenti di common law con il trust, ma allo stesso tempo coerente con il nostro sistema civilistico e fiscale e, quindi, di più immediata e agevole fruibilità per i soggetti interessati.

Sono del resto ormai più che noti i problemi posti dai rapporti con il disposto dell’art. 2740 c.c., con il principio del numerus clausus dei diritti reali, con quello della tassatività delle ipotesi in cui è consentito creare enti dotati di autonomia patrimoniale, con quello della tassatività delle fattispecie soggette a trascrizione, o al profilo di un’eventuale antiteticità rispetto all’art. 2744 c.c., in relazione alla possibilità di costituire, tramite trust, nuovi meccanismi di garanzia, alla potenziale frizione con i principi del nostro sistema successorio, pur nell’àmbito delle clausole c.d. di salvaguardia di cui agli artt. 15 e ss. della Convenzione: si pensi, in particolare, al divieto dei patti successori e di sostituzione fedecommissaria, all’inapponibilità di pesi e condizioni sulla legittima e, più in generale, alle norme a tutela della successione necessaria.

Questi temi hanno, come noto, scatenato furibondi dibattiti, sui quali – attesa anche la sconfinata quantità di contributi al riguardo – non è possibile in questa sede soffermarsi compiutamente. La controversia ha avuto una grande risonanza anche nel web: molti sono ormai gli studi ed i contributi disponibili online sul tema, mentre alcuni siti sono stati addirittura interamente dedicati all’argomento del trust in Italia.

Il principale è, come noto, quello dell’associazione «Il trust in Italia», disponibile al sito web seguente: http://www.il-trust-in-italia.it. Per ulteriori ragguagli si fa rinvio a Oberto, Il trust familiare, dal 10 giugno 2005 disponibile al seguente indirizzo web:

http://giacomooberto.com/milano11giugno2005trust/relazionemilano.htm; Id., Trust e autonomia negoziale nella famiglia, in Fam. dir., 2004, p. 201 ss., 310 ss.

 

Sarà sufficiente rammentare sommariamente in questa sede che la costituzione nel nostro ordinamento di un trust, pur in assenza di un qualsiasi obiettivo elemento di estraneità, appare immaginabile solo a condizione che si fornisca alla convenzione de L’Aja del 1985, ratificata con l. 16 ottobre 1989, n. 364 (entrata in vigore il 1° gennaio 1992) una lettura che ne evidenzi il carattere di regola non già di conflitto, bensì di diritto interno, applicabile anche ai casi in cui non siano prospettabili collisioni tra diversi ordinamenti.

Il relativo testo (francese) è disponibile all’indirizzo web seguente: http://hcch.e-vision.nl/index_fr.php?act=conventions.text&cid=59

Il testo italiano è disponibile al sito seguente:

http://www.assotrusts.it/normativa/convenz_aja.htm

 

Ma proprio questa conclusione appare difficilmente condivisibile. Per comprendere appieno il carattere internazionale della Convenzione de L’Aja occorre porre mente ai seguenti rilievi. Innanzi tutto essa è nata in seno alla Conférence de La Haye de droit international privé, cioè di un’organizzazione intergovernamentale che «a pour but de travailler à l’unification progressive des règles de droit international privé» (Art. 1 del relativo statuto).

Cfr. la pagina web seguente: http://www.hcch.net/index_fr.php?act=text.display&tid=4.

 

 Al riguardo occorre tenere presente che lo stesso rappresentante dell’Italia in seno alla commissione che diede vita alla Convenzione non ha avuto esitazioni ad ammettere che tale Convenzione «rimane una convenzione in tema di conflitti di leggi e non ha affatto inteso trasformarsi in una convenzione di diritto uniforme». Presupposto necessario per l’applicazione della Convenzione sarà dunque la presenza, nella fattispecie, di elementi estranei al sistema italiano.

       I lavori preparatori della Convenzione rendono evidente, del resto, come l’intenzione dei redattori non sia mai stata quella di apprestare norme di diritto materiale uniforme per paesi che, come il nostro, non conoscevano e non conoscono l’istituto del trust. Così alle obiezioni sollevabili da parte di quegli ordinamenti nei quali si potrebbe temere «que les principes de leur système juridique ne soient ébranlés par l’intrusion d’une institution étrangère quelque peu inquiétante» risponde esplicitamente il rapport explicatif lapidariamente chiarendo «qu’il n’a jamais été question d’introduire le trust dans les pays de civil law, mais simplement de fournir à leurs juges les instruments propres à appréhender cette figure juridique». Ed è proprio qui, continua il rapport explicatif, che risiede l’interesse della Convenzione per gli Stati che non conoscono il trust: «L’institution n’étant pas prévue par leur droit matériel, ils ne possèdent pas non plus de règles de droit international privé qui puissent la régir et ils en sont réduits à chercher laborieusement à faire entrer les éléments du trust dans leurs propres concepts. Au contraire, la Convention met à disposition des règles de conflit de lois relatives au trust ; puis elle indique en quoi doit consister la reconnaissance du trust, mais aussi les limites de cette reconnaissance».

Cfr., testualmente, von Overbeck, Rapport explicatif sur la Convention de La Haye du premier juillet 1985 relative à la loi applicable au trust et à sa reconnaissance, n. 14 (il documento è disponibile in formato .pdf all’indirizzo web seguente: http://www.hcch.net/index_fr.php?act=publications.details&pid=2949&dtid=3)

 

Ulteriore conferma di quanto sopra viene dalla comparazione con esperienze straniere di paesi di civil law. Si pensi al fatto che la Francia, dopo aver sottoscritto la Convenzione de L’Aja il 26 novembre 1991, si è ben guardata dal ratificarla prima di dotarsi di uno strumento legislativo nazionale che assicuri il coordinamento tra i tratti essenziali dell’istituto di common law ed i principi fondamentali del diritto interno. Ciò è proprio quanto è avvenuto con la recente legge (19 febbraio 2007) sulla fiducie, che ha peraltro dato luogo ad un istituto assai diverso dal trust, per lo meno da come tale istituto è inteso da noi.

Testo reperibile al sito http://www.senat.fr/index.html, digitando la parola fiducie nella finestra «recherche sur le site».

 

 

3. Segue. Trust interno e Convenzione de L’Aja: alcune schematiche considerazioni sulla legge regolatrice.

 

E’ noto che, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione de L’Aja, il trust è regolato dalla legge scelta dal costituente. La scelta deve essere espressa, oppure risultare dalle disposizioni dell’atto che costituisce il trust o portandone la prova, interpretata, se necessario, avvalendosi delle circostanze del caso. Qualora la legge scelta dal costituente non preveda l’istituzione del trust o la categoria del trust in questione, tale scelta non avrà valore e verrà applicata la legge di cui all’articolo 7. Chi scrive ha già avuto modo di chiarire che detta disposizione non comporta necessariamente il riconoscimento della libertà di scelta di una legge straniera in difetto di elementi di internazionalità della fattispecie, ma può interpretarsi, invece, nel senso che detta libertà di scelta può esplicarsi nei confronti di una legge di un ordinamento con il quale la fattispecie, pur munita di oggettivi elementi di internazionalità, non presenti alcun collegamento.

       Del resto, proprio dall’ambito del diritto internazionale privato, da cui la Convenzione de L’Aja proviene, sembra potersi estrapolare la regola generale che fa divieto ai privati di scegliere a loro arbitrio la legge che disciplinerà i loro rapporti, in assenza di un elemento di estraneità, che pertanto non può essere costituito dalla sola legge dalle stesse parti indicata.

       Come rilevato in dottrina, l’ambito di applicazione del diritto internazionale privato va circoscritto alle fattispecie che presentino elementi di internazionalità sulla base di un giudizio ex ante, soltanto a seguito del quale, accertata la ricorrenza del carattere internazionale della fattispecie, può applicarsi la normativa di diritto internazionale privato e, quindi la norma che legittima la facoltà di scelta di una legge straniera. Ritenere, invece, che la legge straniera scelta dalle parti possa da sola fungere da elemento di internazionalità che giustifica l’applicazione della normativa di diritto internazionale privato significa operare una inversione concettuale contraria ai principi della logica.

       Al riguardo va anche detto che, se è vero che la Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, siglata il 19 giugno 1980 e ratificata con legge 18 dicembre 1984, n. 975, entrata definitivamente in vigore il 1° aprile 1991, stabilisce, all’art. 3, che «il contratto è regolato dalla legge scelta dalle parti», è altrettanto vero che l’art. 1 della citata Convenzione delimita espressamente il campo d’applicazione della medesima alle sole «obbligazioni contrattuali nelle situazioni che implicano un conflitto di leggi» (da notare che la dizione è mantenuta anche nell’art. 1 della proposta di regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I), presentata il 15 dicembre 2005). Il terzo comma dell’art. 3 cit., poi, impedisce espressamente alle parti di derogare alle disposizioni imperative dell’ordinamento cui «nel momento della scelta tutti gli altri dati di fatto si riferiscano». La scelta non potrà dunque sortire l’effetto di eludere l’applicazione delle norme cogenti (si badi: quelle cogenti e non solo quelle di ordine pubblico) del paese con cui il contratto è collegato in via esclusiva, proprio al fine di evitare che i soggetti di un rapporto giuridico privo di elementi di estraneità possano sfuggire all’applicazione delle norme imperative attraverso la designazione di una legge straniera.

L’argomento sovente portato dai sostenitori della tesi della ammissibilità del trust interno si basa sul rigetto – in sede di lavori preparatori della Convenzione de L’Aja – di una proposta tendente a legare la scelta della legge straniera all’esistenza di un «lien [réel] avec la loi choisie», come si legge al paragrafo 65 del rapport explicatif più volte citato. Ma proprio la lettura di tale paragrafo nella sua interezza rende evidente che il rigetto di tale proposta s’accompagnò strettamente al rilievo secondo cui «l’opinion a prévalu qu’il était préférable de réprimer les choix abusifs dans ce qui allait devenir l’article 13». E’ chiaro, quindi, che la proposta, lungi dall’essere rigettata, venne recepita, sebbene in un diverso articolo. Ora, ai sensi dell’art. 13, nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione.

Proprio in relazione a siffatta disposizione ecco cosa chiarisce il rapport explicatif: «124. On notera encore que cette disposition permet au juge d’un Etat ne connaissant pas le trust de refuser la reconnaissance du trust parce qu’il estime qu’il s’agit d’une situation interne. En revanche, cette possibilité n’existe pas dans les Etats connaissant le trust, mais ceux-ci ne semblent pas en éprouver le besoin».

Appare dunque sfatato il mito secondo cui i lavori preparatori della Convenzione de L’Aja consentirebbero di riconoscere nella stessa i caratteri di una norma di diritto sostanziale uniforme, essendo invece chiara l’intenzione di considerare «abusiva» la scelta del ricorso ad una legislazione straniera per dare vita ad un trust interno in un paese che non conosca tale istituto. A conferma dei dubbi sull’accettabilità della tesi che asserisce la validità dei trusts interni, andrà quindi ribadito che proprio quei lavori preparatori della Convenzione cui i fautori di tale opinione fanno richiamo

Cfr. ad es. Trib. Bologna, 1 ottobre 2003, in Trusts att. fid., 2004, p. 67; la pronunzia è inoltre disponibile al seguente indirizzo web:

http://www.filodiritto.com/notizieaggiornamenti/20ottobre2003/TBOlegittimitatrustinterno.htm

 

contengono, in realtà, il chiaro riferimento al potere del giudice di dichiarare la nullità di un trust «parce qu’il estime qu’il s’agit d’une situation interne».

       A ciò s’aggiunga che nemmeno l’argomento fondato sulla disparità di trattamento ingenerata dalla soluzione che non ammette il trust interno rispetto alle situazioni caratterizzate da un obiettivo elemento di estraneità (nelle quali non vi è dubbio che la validità del trust debba essere riconosciuta) appare convincente.

       Sembra infatti a chi scrive che scopo delle norme di diritto internazionale privato sia (e si perdoni l’apparente paradosso) proprio quello di creare disparità di trattamento, al fine di adattare la soluzione alle peculiarità di una fattispecie obiettivamente caratterizzata da elementi di estraneità e dunque obiettivamente diversa da quella in cui tali elementi di estraneità sono assenti. In altre parole, è proprio l’eventuale presenza di elementi di estraneità «oggettivi» (e dunque distinti dal mero capriccio del settlor) ad imporre (ai sensi del secondo, anziché del primo comma, dell’art. 3 Cost.) un trattamento differenziato di situazioni obiettivamente diversificate.

Così, tanto per citare qualche caso esemplare, nessuno dei sostenitori (tra i quali si annovera, in prima fila, e senza esitazioni, chi scrive) della piena validità degli accordi prematrimoniali in vista del divorzio, o dell’eliminazione di quell’inutile (rectius: utile solo per gli avvocati) Wartezeit per il divorzio costituita dalla necessaria separazione legale triennale, si è mai sognato di argomentare l’auspicabilissimo avvento di una situazione analoga a quella in vigore nei sistemi di common law sulla base della disparità di trattamento rispetto ai cittadini stranieri, o comunque rispetto alle situazioni caratterizzate dalla presenza di un obiettivo elemento di internazionalità. Eppure è ben noto che – come riconosciuto anche dalla nostra Corte Suprema – proprio in questi casi, tanto i prenuptial agreements in contemplation of divorce  che il divorzio immediato sono perfettamente riconoscibili dal giudice italiano, cioè da quello stesso giudice pronto a stracciarsi le vesti allorquando la medesima situazione si presenta per un affare «di casa nostra».

       D’altro canto, sarà sufficiente riflettere sul fatto che l’argomento fondato sulla disparità di trattamento, ove spinto alle sue estreme conseguenze, porterebbe puramente e semplicemente all’inaccettabile risultato di una declaratoria di incostituzionalità di tutte le norme di diritto internazionale privato.

 

 

4. Impossibilità di fondare su disposizioni di diritto interno la segregazione patrimoniale quale fenomeno generale.

 

       Ugualmente non persuasivo, a sommesso avviso dello scrivente, appare poi il tentativo di fondare sulla normativa del codice civile la possibilità di dar luogo a fenomeni di «segregazione» patrimoniale al di là dei casi normativamente previsti.

       Si sono citati al riguardo, per ricordare solo alcune fattispecie, i fenomeni previsti in relazione agli acquisti del mandatario senza rappresentanza, alla posizione del debitore che ha costituito in pegno uno o più beni, alla situazione che si viene a produrre nella c.d. «fiducia statica» (che altro non è se non il mandato senza rappresentanza fiduciae causa) o nel sequestro convenzionale.

       Invero, per ciò che attiene agli acquisti del mandatario, gli artt. 1706 e 1707 dispongono quanto segue.

 

Articolo 1706   

ACQUISTI DEL MANDATARIO

1. Il mandante puo` rivendicare le cose mobili acquistate per suo conto dal mandatario che ha agito in nome proprio, salvi i diritti acquistati dai terzi per effetto del possesso di buona fede.

2. Se le cose acquistate dal mandatario sono beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri, il mandatario e` obbligato a ritrasferirle al mandante. In caso d’inadempimento, si osservano le norme relative all’esecuzione dell’obbligo di contrarre.

 

Articolo 1707   

CREDITORI DEL MANDATARIO

1. I creditori del mandatario non possono far valere le loro ragioni sui beni che, in esecuzione del mandato, il mandatario ha acquistati in nome proprio, purche`, trattandosi di beni mobili o di crediti, il mandato risulti da scrittura avente data certa anteriore al pignoramento, ovvero, trattandosi di beni immobili o di beni mobili scritti in pubblici registri, sia anteriore al pignoramento la trascrizione dell’atto di ritrasferimento o della domanda giudiziale diretta a conseguirlo.

 

 

       Per ciò che attiene al pegno, stabilisce l’art. 2786 c.c. quanto segue.

 

Articolo 2786  

COSTITUZIONE

1. Il pegno si costituisce con la consegna al creditore della cosa o del documento che conferisce l’esclusiva disponibilita` della cosa.

2. La cosa o il documento possono essere anche consegnati a un terzo designato dalle parti o possono essere posti in custodia di entrambe, in modo che il costituente sia nell’impossibilita` di disporne senza la cooperazione del creditore.

 

 

       In relazione al sequestro convenzionale stabiliscono gli artt. 1798 e 1800 c.c. quanto segue.

 

Articolo 1798   

 NOZIONE

1. Il sequestro convenzionale e` il contratto col quale due o piu`persone affidano a un terzo una cosa o una pluralita` di cose, rispetto alla quale sia nata tra esse controversia, perche` la custodisca e la restituisca a quella a cui spettera` quando la controversia sara` definita.

 

Articolo 1800  

CONSERVAZIONE E ALIENAZIONE DELL’OGGETTO DEL SEQUESTRO

1. Il sequestratario, per la custodia delle cose affidategli, e` soggetto alle norme del deposito.

2. Se vi e` imminente pericolo di perdita o di grave deterioramento delle cose mobili affidategli, il sequestratario puo` alienarle, dandone pronta notizia agli interessati.

3. Qualora la natura delle cose lo richieda, egli ha pure l’obbligo di amministrarle. In questo caso si applicano le norme del mandato.

4. Il sequestratario non puo` consentire locazione per durata superiore a quella stabilita per le locazioni a tempo indeterminato.

 

 

       Ora, secondo la tesi qui criticata, tali disposizioni contemplerebbero la possibilità di dar luogo a fenomeni molto simili all’effetto «segregativo», in deroga al disposto di cui all’art. 2740 c.c., norma sovente invocata da chi s’oppone alla tesi dell’ammissibilità dei trusts interni. In tutte queste ipotesi avremmo situazioni di proprietà «a disposizione» di altri soggetti, diversi dal proprietario e come tali «insensibili» al fenomeno descritto dall’art. 2740 c.c. Inoltre si verificherebbe una sorta di «scollamento» tra proprietà del bene e potere di gestione dello stesso.

       Molte potrebbero essere le critiche a tale impostazione. A partire dal fatto che i fenomeni descritti, ad esempio, dagli artt. 1706 e 1707 c.c. si spiegano semplicemente in base alla considerazione per cui gli acquisti (mobiliari) del mandatario sono in realtà immediatamente soggetti alla proprietà del mandante alla luce della tesi, vuoi del trasferimento diretto della proprietà in capo al mandante, vuoi del c.d. «doppio trasferimento automatico». Non vi è dunque qui alcuna forma di «scollamento» tra proprietà e potere di gestione: il mandatario ha quale unico potere di «gestione» quello di consegnare il bene al mandante, visto che tale bene è già di proprietà di quest’ultimo.

       Anche a voler contemplare la posizione del mandante la situazione non cambia rispetto alle regole ordinarie: se proprietario è il mandante i suoi creditori potranno soddisfarsi su tali beni e dunque non vi è alcun fenomeno di segregazione simile a quello che si produce nel caso di trust.

       Per gli acquisti immobiliari vi è invece, effettivamente, una proprietà (del mandatario: lo si desume dal fatto che egli è tenuto a trasferire e non già semplicemente ad immettere nel possesso) a disposizione del mandante e per questo il bene è sottratto alla garanzia generica offerta ai creditori del mandatario dal patrimonio di quest’ultimo.

       Peraltro, in questo caso, come negli altri citati, (e fermo restando, naturalmente, che la questione meriterebbe ben altro approfondimento, impossibile nella presente sede), l’effetto  sembra invero porsi quale esclusiva conseguenza di precise disposizioni di legge, in fattispecie che la legge stessa tassativamente descrive, ricollegandole a ben precise dichiarazioni negoziali, inestensibili analogicamente.

       Si noti poi che tutti i casi qui descritti traggono origine da negozi bilaterali, laddove il trust può dar luogo a segregazione anche in base a dichiarazioni unilaterali. In altre parole, sembra che l’art. 2740 c.c. non possa subire deroghe se non nei casi tassativamente previsti dalla legge.

       Un’ulteriore riflessione si impone: proprio il confronto con le ipotesi sopra indicate dimostra come nel nostro ordinamento fattispecie lato sensu assimilabili al trust presentino rispetto a tale figura una differenza insormontabile: ci si riferisce alla struttura stessa del trust, che consiste in un vero e proprio sdoppiamento del diritto di proprietà, sdoppiamento sconosciuto nel nostro ordinamento e tale da dar luogo ad una nuova categoria di diritti reali, in contrasto con il principio d’ordine pubblico della tassatività di questi ultimi.

       La tesi sull’ammissibilità di un trust (non già «interno», in forza della Convenzione de L’Aja, ma) «di diritto interno» (cioè in forza del diritto materiale interno italiano) è stata anche difesa con forza da una pronunzia di merito che, dopo aver correttamente dimostrato l’inapplicabilità al caso in esame della Convenzione, riferibile solo al riconoscimento di trust connotati dalla presenza di un obiettivo elemento di internazionalità, ha ritenuto che l’autonomia negoziale dei privati sia in grado, ai sensi degli artt. 1322 e 1324 c.c., di dare origine ad un trust anche in assenza di un elemento di estraneità, allorquando il negozio istitutivo sia in concreto preordinato al perseguimento di interessi meritevoli di tutela.

Trib. Velletri, 29 giugno 2005, in Corr. giur., 2006, p. 695 ss., con nota di Galluzzo, Autonomia negoziale e causa istitutiva di un trust.

 

Rinviando alla attenta nota di commento per la dettagliata confutazione di tale assunto, potrà sommariamente rilevarsi come, in considerazione della natura straordinaria ed eccezionale del vincolo di indisponibilità imposto con il perfezionamento del negozio destinatorio costitutivo del trust, meritino di essere condivise le conclusioni di chi ha affermato che il fenomeno della funzionalizzazione del diritto dominicale può operare nelle sole ipotesi in cui la destinazione sia stata espressamente autorizzata dal legislatore e non invece nel caso in cui l’imposizione del vincolo – al di fuori degli schemi tassativi di proprietà-funzione predisposti dalla legge – costituisca il mero «precipitato» dell’autonomia privata. Le conclusioni non possono mutare neppure dopo l’introduzione dell’art. 2645-ter c.c., posto che la disposizione – come si avrà modo di vedere tra breve – delinea un fenomeno assai diverso dal trust.

 

 

5. Trust e negozio fiduciario.

 

A quanto sopra si potranno poi aggiungere i dubbi prospettati da una decisione di merito

Trib. Belluno, 25 settembre 2002, in Corr. giur., 2004, p. 57.

 

, nonché da una parte della dottrina, sul piano causale del negozio traslativo concernente un trust non autodichiarato. Muovendo, infatti, dalla constatazione per cui, ai sensi dell’art. 4 della Convenzione de L’Aja, la convenzione stessa non trova applicazione alle «questioni preliminari relative alla validità dei testamenti o di altri atti giuridici, in virtù dei quali determinati beni sono trasferiti al trusteee», e dunque al negozio di trasferimento dei beni in trust, si è osservato che, per la validità di tale atto traslativo, nel caso di un trust interno, dovranno comunque trovare applicazione le norme della legge italiana. Si è in proposito contestato che il nostro ordinamento possa ammettere un negozio traslativo a causa esterna fiduciaria, e si è sul punto negato che nell’ipotesi in esame la giustificazione causale dell’atto di trasferimento si possa trovare nel contratto con il quale il fiduciario si è obbligato ad acquistare la proprietà del bene che il fiduciante intende trasferirgli, quale mezzo per adempiere la fiducia.

Si è in particolare espressa opinione contraria, in dottrina, sull’ammissibilità della causa fiduciae quale causa sufficiente a trasferire la proprietà dal fiduciante al fiduciario, sia con riferimento alla fiducia cum amico, sia con riguardo a quella cum creditore. Sotto entrambi i profili viene in considerazione il medesimo ostacolo, costituito dal limite che l’autonomia privata incontra nella costruzione di diritti e vincoli reali diversi da quelli direttamente previsti dalla legge e nel perseguimento di obiettivi volti ad ostacolare la libera circolazione dei beni, a porre divieti di alienazione ovvero ad effettuare la dissociazione permanente tra titolarità del bene e suo godimento (donde, ad esempio, l’inderogabilità della disciplina relativa alla necessaria temporaneità dell’usufrutto).

Ma, per tornare all’impostazione «dualistica», espressa con la nota e immaginifica metafora della «rampa di lancio» (vale a dire il contratto o il testamento che trasferisce i beni al trustee, così permettendo al trust di venire in essere e lanciandolo nel mondo del diritto) e del «razzo» (cioè del trust in sé, che ha vita autonoma ed indipendente dal negozio che ha costituito, per così dire, la «provvista» della sua creazione), va ammesso che la questione appare quanto mai spinosa, anche perché tocca direttamente il principio del numero chiuso dei diritti reali. Proprio per questa ragione, ad esempio, Pugliatti escludeva l’ammissibilità della causa fiduciae e della proprietà fiduciaria.

Di contro si potrebbe però obiettare che la causa esterna nella fiducia potrebbe forse rinvenirsi in un mandato senza rappresentanza tra fiduciante e fiduciario, configurando, quale negozio che il mandatario-fiduciario si obbliga ad eseguire per conto del mandante, proprio il successivo (ri)trasferimento al mandante o ad un terzo. A ciò s’aggiunga che oggi il d. lgs. 21 maggio 2004, n. 170, emanato in attuazione della direttiva 2002/47/CE relativa ai contratti di garanzia finanziaria, riconosce espressamente il «trasferimento della proprietà di attività finanziarie con funzione di garanzia» e ciò addirittura con espressa deroga al divieto del patto commissorio (cfr. art. 6 d.lgs. cit.).

L’atto traslativo – pur privo in sé di supporto causale – s’appoggerebbe, dunque, ad una causa esterna o praeterita. E del resto il negozio traslativo a causa esterna non pare tout court incompatibile con il nostro ordinamento. Come si è esattamente rilevato in dottrina, l’art. 1376 c.c. agevola le parti, ma non può vincolarle contro la loro stessa volontà. Del resto, che il principio consensualistico possa essere derogato si desume anche dal secondo comma dell’art. 1465 c.c. (in materia di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione), che consente che l’effetto traslativo o costitutivo sia differito fino allo scadere di un termine, nonché dalla ammissibilità nel nostro ordinamento, della clausola che eleva il pagamento del prezzo a condizione sospensiva di efficacia del contratto.

Varrà però la pena di ribadire che, se le surriferite argomentazioni possono consentire di giustificare (anche ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 4 della Convenzione de L’Aja) i trasferimenti che s’accompagnano ad un trust non autodichiarato, è la creazione in sé di tale vincolo che continua a destare perplessità, atteso che la sola autonomia privata non può dar luogo ad eccezioni rispetto al principio di cui all’art. 2740 c.c., norma che, pur in presenza di numerose deroghe (e l’art. 2645-ter c.c., come vedremo, ne rappresenta una vistosa), continua a mantenere il suo carattere di inderogabilità, anche per evidenti motivi d’ordine pubblico. E’ chiaro, infatti, che se ai privati venisse concessa la facoltà di dar vita ad libitum a vincoli di inespropriabilità, la garanzia patrimoniale generica rischierebbe di vedersi ridotta ad una mera parvenza, scaricandosi sempre e comunque sui creditori l’onere di esperire un’azione revocatoria, il cui esito favorevole – avuto riguardo alle incertezze legate alle prove richieste dall’art. 2901 c.c., anche in relazione agli atti gratuiti – non potrebbe certo darsi sempre per scontato.

E’ dunque vero che, come pure è stato notato, la creazione di un vincolo di destinazione, al di fuori dei casi normativamente previsti (e l’introduzione proprio dell’art. 2645-ter c.c. viene al riguardo a presentare un formidabile argomento a contrario), comporterebbe il frazionamento del patrimonio del disponente, il quale verrebbe a scomporsi in distinte entità: da un lato, quella formata dall’insieme dei beni destinati allo scopo; dall’altro lato, quella rappresentata dagli altri beni. I beni destinati costituirebbero così un patrimonio separato, in deroga all’art. 2740 cpv. c.c.

al riguardo vale osservare che contro gli atti dispositivi idonei a diminuire la garanzia patrimoniale del debitore sarebbe applicabile il (solo) rimedio dell’azione revocatoria, posto che la sussistenza, in una determinata fattispecie, dei presupposti di applicabilità dell’art. 2901 c.c. non può certo dar luogo ad una (del tutto anomala ed assolutamente non prevista) esclusione di operatività per quella stessa fattispecie delle regole generali che discendono dalla violazione in concreto di una o più norme imperative. Così, tanto per fare un esempio, nessuno si sognerebbe di sostenere la validità di un atto costitutivo di fondo patrimoniale ex artt. 167 ss. c.c. tra conviventi more uxorio, sol perché finalizzato a frodare le ragioni dei creditori e pertanto revocabile ex art. 2901 c.c.

 

 

6. L’atto di destinazione ex art. 2645-ter c.c. di fronte al trust interno: prime reazioni e impressioni.

 

Una parte della dottrina (di quella, in particolare, favorevole alla tesi del trust interno), posta di fronte alla novità costituita dall’introduzione dell’art. 2645-ter c.c., ha ritenuto di dover immediatamente esaltare le affinità tra i due istituti qui in esame, concludendo per una coincidenza quasi totale o, quanto meno, parziale tra gli stessi, evidenziando altresì che la novella comporterebbe la soluzione in senso positivo dell’annosa questione della trascrivibilità del trust. Qualche Autore si è addirittura spinto a sostenere che, a seguito della riforma, il nostro Stato non potrebbe più essere annoverato tra quelli che «non prevedono l’istituto del trust» e conseguentemente l’art. 13 della Convenzione de L’Aja non potrebbe più «essere invocato per negare il riconoscimento ad un trust interno».

Le conclusioni cui un’attenta disamina delle fattispecie in oggetto deve condurre sono, in realtà, ben diverse.

Ma prima di cercare di analizzare in maniera analitica le differenze tra trust e atto destinazione ex art. 2645-ter c.c. sarà opportuno gettare un primo sguardo d’insieme al tenore della disposizione da ultimo citata, che recita testualmente quanto segue:

«Gli atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo».

       Nel testo sopra virgolettato si sono evidenziati in corsivo i punti di divergenza (sicura, o, quanto meno, prospettabile) rispetto al trust. Appare quindi evidente che (almeno in termini di numero di caratteri!) oltre la metà della disposizione in esame risulta incompatibile (o pone seri problemi di coordinamento) con l’istituto del trust.

 

 

7. Meritevolezza di tutela degli interessi da realizzarsi con l’art. 2645-ter c.c. e causa tipica del trust. Meritevolezza del motivo del negozio di destinazione.

 

Passando ad esaminare partitamente i diversi profili di differenza tra i due istituti dovremo concentrare in primo luogo l’attenzione su quello che di essi appare – ad avviso di chi scrive – più evidente: al punto da impedire di riconoscere all’art. 2645-ter c.c. la natura anche solo di mero frammento di trust, per l’ontologica ed insanabile diversità tra i due istituti. Ci si intende qui riferire alla necessaria presenza di uno scopo coincidente con la «realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma», c.c.

Diciamo subito che la sottolineatura in questione viene a tal punto marcata dal legislatore da non consentire dubbi sul fatto che l’atto istitutivo del vincolo debba obbligatoriamente contenere espressa menzione dello scopo, tanto che non manca chi parla al riguardo di una necessaria expressio finis, che fornisce la giustificazione del vincolo di destinazione impresso ai beni e che come tale deve essere contenuta anche formalmente nell’atto istitutivo.

Né sul punto varrebbe obiettare che l’immeritevolezza, cui fa richiamo per il contratto in generale l’art. 1322 cpv. c.c., sarebbe ipotesi ormai di scuola e che il requisito menzionato da tale articolo verrebbe, in buona sostanza, confuso con l’assenza di illiceità.

Sia consentito ribattere, in primo luogo, che non risponde in alcun modo a verità l’opinione diffusa, secondo cui la giurisprudenza di  legittimità non avrebbe mai dichiarato un contratto atipico lecito, ma immeritevole di tutela.

Cfr. ad es. Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter, cit., § 3, secondo il quale dal 1942 ad oggi una sola sentenza avrebbe dichiarato un contratto atipico lecito, ma immeritevole di tutela; l’Autore cita in proposito App. Milano, 29 dicembre 1970, in Riv. dir. comm., 1971, II, 81; pronunzia, questa, cassata da Cass. 2 luglio 1975, n. 2578, in Temi, 1977, p. 133.

 

Una ricerca, anche sommaria, negli archivi della Cassazione mostra, ad esempio, che non mancano certo le ipotesi in cui la Corte Suprema ha riconosciuto la nullità di un contratto innominato per immeritevolezza, pur espressamente qualificandolo come non contrario a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume.

Cfr. ad esempio Cass., 23 febbraio 2004, n. 3545; Cass., 28 luglio 1981, n. 4845.

 

Ne segue l’inaffidabilità dell’affermazione – pure rinvenibile nella stessa giurisprudenza di legittimità e, forse, troppo enfatizzata dalla dottrina – secondo cui la Cassazione avrebbe «finito per abbandonare il requisito autonomo della meritevolezza per dichiarare meritevole tutto ciò che non è contrario alle norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume».

Così Cass. 6 febbraio 2004, n. 2288.

 

D’altro canto, può darsi per assodato che il requisito di cui all’art. 1322 cpv. c.c. si riferisce alla sola materia dei contratti atipici, posto che la meritevolezza di tutela viene garantita, per i contratti nominati, dal semplice fatto che il legislatore ha ritenuto di prevederli e disciplinarli. A questo punto si potrebbe allora rimarcare che l’art. 2645-ter c.c., ancora a prescindere dal «tormentone dottrinale» circa la sua riferibilità (anche) allo schema contrattuale, costituisce figura sicuramente tipica, giudicata a priori nel tipo come meritevole di tutela, a condizione che meritevole di tutela sia l’interesse perseguito in concreto, di volta in volta, dal costituente (o conferente, che dir si voglia).

L’osservazione sembra dunque rendere evidente la necessità di riferire la meritevolezza, con riguardo agli atti di destinazione, non già al tipo negoziale individuato dal legislatore – cioè a dire il vincolo, così come disciplinato (in maniera certo rozza, illogica, contraddittoria: ma pur sempre disciplinato) dall’art. 2645-ter c.c. – bensì allo scopo in concreto e di volta in volta perseguito dal «conferente». In altri termini, ciò che sembra qui far capolino è, a ben vedere, il concetto (non già di causa, tipizzata dal legislatore, ma) di motivo, il quale, a differenza che nella disposizione testamentaria (cfr. art. 626 c.c.) e nella donazione (cfr. art. 788 c.c.), rileva non solo in caso d’illiceità, ma, prima ancora, addirittura nell’ipotesi di sua immeritevolezza.

La considerazione rende ragione – se ancora ve ne fosse bisogno – della necessità, sopra evidenziata, di un’expressio finis, sulla base di un giudizio che non può essere demandato se non (in prima istanza) al pubblico ufficiale che redige l’atto e, in ultima analisi, in caso di contestazione, al giudice.

Dunque ecco stagliarsi una prima, fondamentale, differenza della fattispecie descritta dall’art. 2645-ter c.c. rispetto al trust. Se, invero, si ammettesse il trust interno, occorrerebbe anche ammettere che ci si troverebbe di fronte ad una figura tipica, per la quale la valutazione di meritevolezza è stata effettuata una volta per tutte, «a monte» (come si direbbe oggi), dal legislatore, il quale avrebbe così ritenuto di conformarsi ai modelli di trust previsti dai vari ordinamenti che tale figura conoscono, in quanto richiamati dal capriccio dei costituenti nei rispettivi atti costitutivi. Ma è chiaro che nessun notaio, in sede di stesura dell’atto, e nessun giudice, in sede di contestazione, una volta data per ammissibile la costituzione di un trust interno, potrebbero mai permettersi di vagliare la meritevolezza del motivo per il quale esso è stato creato (al di là, è ovvio, della liceità della causa, che, come si è detto, è cosa che si pone su di un piano ben diverso). Così, tanto per portare un esempio, l’intento del professionista di evitare, mercé la segregazione del suo patrimonio in trust, che un giorno eventuali propri clienti insoddisfatti (e vincitori di ipotetiche cause di responsabilità nei suoi riguardi) si fiondino sul frutto dei suoi risparmi, sebbene non illecito, appare (quanto meno a chi scrive) del tutto immeritevole di tutela, epperò inidoneo a determinare per ciò solo una declaratoria di nullità dell’atto.

Tutto al contrario, nel caso dell’art. 2645-ter c.c., il controllo di meritevolezza del motivo risulta essenziale per la validità del vincolo e ne costituisce un elemento strutturale.

In ogni caso appare – quanto meno a chi scrive – contraddittorio, per chi ammette la validità del trust interno, sottoporre quest’ultimo ancora a valutazione di meritevolezza. Una volta che si sia detto che la Convenzione de L’Aja legittima cittadini italiani a dar luogo ad un trust anche in assenza di un qualsiasi elemento di estraneità che non sia costituito dal capriccio delle parti nella scelta della legge straniera applicabile, la valutazione di meritevolezza deve ritenersi, come già ricordato, compiuta dal legislatore una volta per tutte. Semmai, la valutazione che è richiesta dalla legge è, a questo punto, quella di conformità con le regole elencate (non tassativamente!) all’art. 15 della Convenzione: principi che peraltro impongono un giudizio di compatibilità con le norme inderogabili dell’ordinamento designato dalle regole di conflitto del foro e non certo una valutazione di meritevolezza.

       Ne esce confermato, dunque, che l’art. 2645-ter c.c. contiene in sé un primo elemento (la meritevolezza di tutela degli scopi perseguiti con il vincolo) che lo rende assolutamente incompatibile con il trust, posto che per la sussistenza di quest’ultimo, una volta che lo si sia ritenuto ammissibile nel nostro ordinamento, nessun giudizio di meritevolezza – né del tipo negoziale, né degli scopi perseguiti – è richiesto.

 

 

8. Il tipo di meritevolezza di tutela degli interessi da realizzarsi con l’art. 2645-ter c.c.

 

       La diversità della fattispecie (malamente) delineata dall’art. 2645-ter c.c. rispetto al trust emerge ancora più evidente se si cerca di rispondere alla domanda su quale sia il tipo di meritevolezza richiesto. Qui va subito detto che la dottrina contraria ad appiattire tale valutazione su di un mero apprezzamento di non illiceità si divide tra chi afferma la necessità che lo scopo realizzi un fine di utilità sociale, o di pubblica utilità, che dir si voglia, e chi sostiene, in alternativa, che lo scopo – ancorché non rispondente a tali ultimi fini – potrebbe limitarsi a meritare un generico «apprezzamento positivo». L’unico punto su cui sembra esservi convergenza di vedute è che la meritevolezza non può consistere nella pura e semplice salvaguardia del patrimonio del costituente da azioni esecutive dei propri creditori.

La tesi della rispondenza a pubblica utilità trova un preciso addentellato nel dibattito relativo alle fondazioni di famiglia e pare confermata dalla durata del vincolo, che, potendosi estendere fino a novanta anni, riferisce la finalità destinatoria necessariamente all’interesse di terzi diversi dal conferente.

       Ma, a ben vedere, in dottrina vi è chi ha prospettato una lettura ancora più rigorosa, fondata sulla valorizzazione dell’espressa menzione dei disabili, da un lato, e delle pubbliche amministrazioni, dall’altro. In quest’ottica si è rilevato che «La menzione dei disabili permea di sé l’intera norma e ne costituisce la chiave di lettura, secondo un parametro di comparazione, un “concetto relazionale”, che richiede una particolare caratura dell’interesse in esame».

In questo senso sembrano deporre anche i precedenti della norma, ispirata ad alcune (peraltro ben più ponderate e già ricordate) proposte di legge della XIV legislatura, che, sotto il titolo, rispettivamente, «Disciplina della destinazione di beni in favore di soggetti portatori di gravi handicap per favorirne l’autosufficienza» (cfr. la proposta contrassegnata dal N. 3972, presentata alla Camera dei Deputati il 14 maggio 2003) e «Norme in materia di trust a favore di soggetti portatori di handicap» (cfr. la proposta contrassegnata dal N. 2733, presentata alla Camera dei Deputati il 10 maggio 2002), miravano ad introdurre, a tutela delle persone disabili, la possibilità di dar luogo ad un vincolo assai simile a quello che si attua negli ordinamenti di common law con il trust.

       Più che legittimo appare quindi il dubbio che meritevoli di tutela ex art. 2645-ter c.c. possano solo essere, tra gli scopi di utilità sociale, quelli improntati al canone della solidarietà. Ne deriva che potranno ritenersi sicuramente meritevoli di tutela interessi quali quelli legati al

·       dovere di contribuzione nella famiglia tanto legittima (artt. 143, 167 c.c.),

·       che di fatto,

·       all’obbligo di mantenimento della prole, sia nella fase «fisiologica» (artt. 147, 148 c.c.),

·       che in quella «patologica» (artt. 155 ss. c.c., art. 6, l.div.) del rapporto coniugale,

·       allo stesso mantenimento del coniuge separato (art. 156 c.c.) e

·       all’assegno in favore del divorziato (art. 5, commi quinto ss., l.div.), per i quali del resto non si esita a parlare di «solidarietà postconiugale».

La famiglia costituisce dunque il terreno d’elezione per lo sviluppo di tali manifestazioni di solidarietà, che, ancorché dirette a soggetti determinati, finiscono con l’assumere una funzione sicuramente sociale.

 

 

9. Profilo «statico» e profilo «dinamico»: i rapporti tra vincolo di destinazione ed effetto traslativo dei diritti.

 

Un altro rimarcabile punto di differenziazione tra le due figure in esame attiene a quella dialettica tra profilo «statico» e profilo «dinamico» che caratterizza il trust nei rapporti tra vincolo di destinazione ed effetto traslativo dei diritti.

E’ noto infatti che, a meno che si versi in ipotesi di trust autodichiarato, l’istituto di matrice anglosassone prevede usualmente un trasferimento (dal settlor al trustee) dei beni su cui il vincolo viene a costituirsi, nonché la previsione di un ulteriore trasferimento, una volta che le finalità del trust siano state realizzate, ad un soggetto determinato, che potrà essere il settlor (ed in tal caso si avrà un vero e proprio ritrasferimento), o, in alternativa, uno o più dei beneficiari, che acquisteranno così la veste di beneficiari finali.

Il vero problema posto dall’art. 2645-ter c.c. consiste nell’esatta identificazione delle facoltà concesse al «conferente»: vale a dire se, mercé l’istituto in oggetto, sia possibile esclusivamente prevedere la costituzione di un vincolo su beni di proprietà del costituente medesimo, ovvero se la norma ammetta anche l’effettuazione di trasferimenti di diritti in capo ad un distinto «esecutore della destinazione» e, soprattutto, se tale soggetto possa ulteriormente vincolarsi a trasferire, una volta giunto a scadenza il periodo di durata del vincolo stesso, i beni ad un soggetto distinto, secondo quanto avviene nelle ipotesi di trust non autodichiarato.

E’ evidente che la risposta positiva ad un siffatto interrogativo consentirebbe di dar vita non solo, come si vedrà tra breve, ad un nuovo tipo di «fondo patrimoniale», così come ad una nuova forma di garanzia delle prestazioni postmatrimoniali, ma addirittura di prevedere, nell’ambito endofamiliare, attribuzioni di cespiti patrimoniali in occasione di determinati eventi, quali il raggiungimento della maggiore età da parte dei figli, la crisi del rapporto, o lo scioglimento di esso per divorzio o per la morte di uno dei coniugi.

Peraltro i concetti di «destinazione per un determinato periodo» e di «vincolo», contenuti nella norma novellamente introdotta nel nostro codice civile, sono ben distinti da quello di «trasferimento di un diritto».

Un bene può essere vincolato ad uno scopo senza essere trasferito ad un soggetto diverso dal suo titolare, come avviene, ad esempio, nel fondo patrimoniale su beni dei coniugi o nel trust autodichiarato, nel quale è lo stesso costituente a porsi quale trustee. Vincolo di destinazione significa che il bene può essere amministrato solo in vista della realizzazione di quello scopo e che tale bene è aggredibile dai soli creditori i cui diritti si fondano su atti di gestione compiuti in vista della realizzazione dello scopo medesimo. Ma tutto ciò, con il trasferimento del bene dal costituente ad un terzo, e con l’eventuale successivo ritrasferimento ad un beneficiario finale, nulla ha a che vedere.

Se volgiamo l’attenzione all’art. 2645-ter c.c., scopriamo che la disposizione contiene le seguenti espressioni: «atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela» e poco sotto, «vincolo di destinazione».

La prima e provvisoria conclusione alla quale sembra potersi pervenire sul punto è che la norma novellamente introdotta nel codice civile si limita a prevedere la costituzione di un vincolo in maniera del tutto avulsa dal fatto che in vista di tale vincolo sia stato effettuato un trasferimento del diritto sul bene da vincolarsi, ovvero che le parti pattuiscano un ritrasferimento in capo al trasferente, o un trasferimento ulteriore, una volta che il vincolo sia giunto a scadenza.

In questo senso sembra anche orientata la circolare n. 5/2006 della Direzione dell’Agenzia del Territorio, del 7 agosto 2006

Disponibile al seguente indirizzo web:

http://www.agenziaterritorio.it/sites/territorio/files/documentazione/normativa%20di%20riferimento/Circolari_2006/circolare_5_2006.pdf

 

, la quale rimarca, testualmente, che «Quanto ai profili di merito, sembra opportuno ribadire preliminarmente la circostanza che detti atti di destinazione producono soltanto effetti di tipo “vincolativo”. Come già in parte accennato, infatti, i beni oggetto degli atti di destinazione, pur venendo “segregati” rispetto alla restante parte del patrimonio del “conferente” – al fine di garantire la realizzazione degli interessi meritevoli di tutela cui è preordinato il vincolo – restano comunque nella titolarità giuridica del “conferente” medesimo».

Nonostante ciò, molti interpreti concordano nel ritenere che l’art. 2645-ter c.c. possa anche prevedere un momento traslativo. Più esattamente, mentre alcuni sembrano dare tale effetto quasi per scontato, altri cercano di fornire dimostrazioni al riguardo, sovente appoggiandosi alle ambiguità della formulazione normativa.

Così si è affermato che siffatta conclusione trarrebbe conferma dal fatto

·       che il testo «considera normale l’eccedenza della durata del vincolo rispetto alla vita del disponente,

·       perché chiama “conferente” il disponente e, infine, perché consente a terzi interessati di agire per l’attuazione della finalità dell’ “atto di destinazione” anche dopo la morte del “conferente”».

·       Non solo. La legge, oltre a parlare di «conferente» e di «beni conferiti», attribuisce al conferente il potere di agire per l’adempimento dello scopo, così facendo chiaramente intendere che, non potendosi immaginare che il conferente convenga in giudizio se stesso, occorre necessariamente concludere che la norma dà per scontato l’intervento di un terzo soggetto, cui il diritto sul bene vincolato viene trasferito.

Cominciamo dal termine «conferente» e da quello, ad esso riferito, «beni conferiti». Sotto il profilo strettamente etimologico andrà notato che il verbo confero deriva da cum-ferre: le espressioni in oggetto denotano dunque un atto traslativo (ferre) compiuto con altri soggetti.

La conferma balza agli occhi sol che si ponga mente ai conferimenti del diritto societario (cfr. ad es. artt. 2253, 2343 ss., 2440 c.c.), o al conferimento per la costituzione di fondi di garanzia (art. 2548 c.c.), ma anche al conferimento negli ammassi (art. 837 c.c.) o al verbo «conferire» impiegato dalle norme (cfr. artt. 737, 739, 740, 751 c.c.) in tema di collazione (termine che deriva, a sua volta, proprio dal verbo conferre). La giurisprudenza impiega dal canto suo questa medesima terminologia per denotare l’inserimento, in comunione convenzionale tra coniugi, di uno o più beni che, in assenza di convenzione, sarebbero rimasti personali ex art. 179, lett. a), c.c.

Cfr. Cass., 4 febbraio 2005, n. 2354, in Foro it., 2005, I, c. 1735; in Fam. e dir., 2005, p. 237, con nota di V. Carbone.

 

Altrettanto sicuramente può però rimarcarsi che, nel linguaggio corrente, il verbo «conferire» e il sostantivo «conferimento» possono essere riferiti anche ad una semplice sottoposizione a vincolo, a prescindere dal fatto che ciò presupponga il trasferimento della proprietà sul bene vincolato, come dimostrato da una florida messe di pronunzie di legittimità, che, senza alcuna difficoltà, parlano di «conferimento» (e/o di «beni conferiti») in fondo patrimoniale

Cfr. ad es. Cass., 31 maggio 2006, n. 12998.

 

come del resto già si diceva per la dote (che pure si sostanziava in un mero vincolo)

Cass., 20 maggio 1977, n. 2096.

 

e – a quanto pare – si comincia a dire pure per il trust autodichiarato

Di «beni conferiti in trust» parla anche Trib. Bologna, 1 ottobre 2003, cit.

 

Quanto sopra dimostra che l’impiego dei termini in discorso non tradisce necessariamente l’intento di richiamare una vicenda traslativa di diritti, ben potendo riferirsi anche alla sola intenzione di denotare la costituzione di un vincolo.

Per quanto attiene poi al fatto che il legislatore mostrerebbe di considerare normale l’eccedenza della durata del vincolo rispetto alla vita del disponente, va detto che non sussistono difficoltà nel riconoscere che il vincolo si trasmetta agli eredi del titolare del diritto vincolato: ma ciò non ha nulla a che vedere con la natura traslativa o meno del fenomeno descritto dall’art. 2645-ter c.c. Del resto non si riesce a comprendere perché un ipotetico trustee all’italiana ex art. 2645-ter c.c. dovrebbe essere dotato di una longevità maggiore di quella del costituente. Proprio l’ipotesi (pure essa «fisiologica») della premorienza di tale soggetto rispetto al momento di cessazione del vincolo, ben lungi dal risolvere il problema adombrato, pone, anzi, il quesito della trasmissibilità agli eredi di quest’ultimo.

Venendo alla legittimazione attiva concessa al conferente medesimo, si è asserito che anche tale elemento confermerebbe gli effetti traslativi (o anche traslativi) della vicenda descritta nell’art. 2645-ter c.c., poiché non avrebbe senso legittimare il costituente ad agire contro se stesso. Ne deriverebbe una necessaria scissione tra «conferente» ed un soggetto distinto, che finirebbe con lo svolgere funzioni analoghe a quelle di un trustee.

Ma, a parte il rilievo che, negli ordinamenti di common law, il settlor non ha generalmente azione contro il trustee, onde si porrebbe un’ulteriore distinzione tra la figura in esame ed il trust, si può però obiettare, in primis, che il riferimento all’azione del costituente ben può intendersi come riferita ad un’actio mandati del costituente stesso contro il mandatario che il medesimo abbia eventualmente incaricato di attuare lo scopo. D’altra parte, come messo in luce in dottrina, «la previsione di una sistematica legittimazione attiva del conferente potrebbe (…) anche indicare che il conferente, essendo sempre altresì gestore del fondo destinato, ha il potere di attivarsi per la realizzazione del fine di destinazione contro qualunque soggetto terzo che tenti di impedirla».

Concludendo sul punto, ben può concordarsi con chi afferma che la norma non pare offrire elementi testuali decisivi in un senso o nell’altro, poiché utilizza ora termini neutri al riguardo (beni «destinati»; «vincolo di destinazione»; «fine di destinazione»), ora termini ambivalenti, in quanto evocano l’immagine di un trasferimento di beni («conferente»; beni «conferiti») ma vengono inseriti in un contesto in cui mai viene menzionata l’esistenza di un soggetto gestore che sia diverso dal soggetto autore della destinazione.

 

 

10. Segue. Vicende traslative disposte dall’autonomia delle parti in relazione all’art. 2645-ter c.c. Il trasferimento alla scadenza del vincolo.

 

La conclusione di cui sopra – secondo cui costituzione di un vincolo e trasferimento del diritto sul bene già vincolato, o da vincolarsi, sono vicende radicalmente distinte tra di loro, mentre l’art. 2645-ter c.c. sembra far riferimento alla sola prima delle due, con conseguente differenziazione rispetto al trust – non risolve ancora di per sé l’ulteriore quesito circa la possibilità che le parti autonomamente e in base ai principi di autonomia privata prevedano un trasferimento in vista dell’attuazione del vincolo medesimo. La questione rievoca gli accaniti dibattiti sull’idoneità del consenso a riprodurre nel diritto italiano questo effetto, tipicamente conosciuto dagli atti costitutivi di trust (almeno, di quelli non autodichiarati) nel diritto anglosassone.

In questa sede non si potrà far altro che rilevare come l’esistenza di un articolo quale il 2645-ter c.c., ancorché non delineante di per sé una fattispecie traslativa, può ora porsi quale idonea causa al trasferimento operato in funzione del vincolo di destinazione meritevole di tutela e costituito con il rispetto delle regole previste dalla disposizione.

In altre parole, mentre in precedenza il trasferimento in funzione della costituzione di un vincolo da trust, non coperto dall’operatività della Convenzione de L’Aja, per effetto del disposto del suo art. 4, non poteva ritenersi sorretto da idonea causa, se non ricorrendo alla controversa tesi della causa fiduciae, può ora dirsi che la translatio dominii compiuta in funzione della costituzione di un vincolo quale quello (malamente) descritto dall’art. 2645-ter c.c. sia giustificata, proprio perché diretta a porre in essere un vincolo (questa volta espressamente) riconosciuto dalla legge.

Trattasi dunque di trasferimento causalizzato dall’art. 2645-ter c.c., in quanto posto in essere per raggiungere lo scopo meritevole di tutela e perché attuato verso un soggetto incaricato, in base ad un apposito mandato (e/o di un contratto d’opera, visto che il più delle volte non si tratterà certo solo di porre in essere atti giuridici) di porre in essere tutti i comportamenti ritenuti idonei al fine di ottenere il conseguimento dello scopo sperato.

Strettamente collegato al momento traslativo è quello dell’eventuale ritrasferimento del diritto dominicale – una volta trascorso il periodo di durata, o che si sia verificata la morte del beneficiario – dall’ «attuatore» al costituente, o a un terzo, ovvero ancora dallo stesso costituente (e contemporaneamente «attuatore», o dagli eredi di quest’ultimo) ad un terzo. E’ noto che questo aspetto è uno dei profili salienti dei trusts, che sovente prevedono proprio la duplice figura del beneficiario immediato e del beneficiario finale: il primo dei quali è costituito dal soggetto che s’avvantaggia del vincolo di durata, mentre il secondo (che può anche coincidere con il primo) è la persona cui andrà trasferita la proprietà dei beni (già) vincolati.

Ancora una volta i sostenitori della ammissibilità del trust interno non sembrano mostrare dubbi sulla liceità di una siffatta pattuizione, al punto da spingersi ad ipotizzare la trascrivibilità immediata, nel caso di mandato senza rappresentanza ad acquistare, del «vincolo di destinazione dei beni a beneficio del mandante. Senza, quindi, necessità di attendere l’eventuale inadempimento del mandatario al fine di trascrivere la domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di ritrasferimento», così «assicurando al mandante una tutela reale almeno a partire dal momento in cui l’acquisto è effettuato ad opera del mandatario».

Ma, a parte il dubbio che la novella si occupi veramente del mandato senza rappresentanza e della causa fiduciae, tutto quanto si può ricavare (e con una certa fatica!) dall’art. 2645-ter c.c. – come si è visto – è l’ammissibilità di un trasferimento strumentale ad un vincolo e non certo quella di un vincolo strumentale ad un (ri)trasferimento. Il vincolo di cui si discute, infatti, per la sua intrinseca temporaneità non può esaurirsi se non in un impiego del bene perché il suo reddito realizzi scopi meritevoli di tutela denunziati nell’atto costitutivo: tale impiego non può dunque risolversi un un’attribuzione del diritto dominicale (o di altri diritti reali) una volta esaurita la funzione per cui il vincolo era stato creato.

Rimane pertanto evidenziata un’ulteriore ragione di distinzione della fattispecie descritta dall’art. 2645-ter c.c. rispetto al trust, nel quale, come già ricordato, il fenomeno del ritrasferimento al settlor o del trasferimento ad un soggetto distinto dal trustee costituisce un elemento naturale del trust non autodichiarato. Un elemento che peraltro viene sovente a porre, con riguardo alla nostra legislazione, seri problemi di compatibilità con taluni istituti del diritto successorio (e di ammissibilità stessa del trust, ai sensi dell’art. 15 della Convenzione de L’Aja): la clausola di ritrasferimento, se legata alla morte del trustee, potrebbe invero incorrere in nullità per violazione del divieto dei patti successori e, se contenuta in una disposizione mortis causa, per violazione delle regole che vietano, in linea di massima, la creazione di un ordo successivus.

In definitiva, dovrà dirsi che il vincolo di cui si discute, per la sua intrinseca temporaneità, non può esaurirsi se non in un impiego del bene perché il suo reddito (o il suo uso temporaneo) realizzi scopi meritevoli di tutela denunziati nell’atto costitutivo: tale impiego non può dunque risolversi un un’attribuzione del diritto dominicale (o di altri diritti reali) a vantaggio del beneficiario, una volta esaurita la funzione per cui il vincolo era stato creato.

Ma escludere l’idoneità dello strumento ex art. 2645-ter c.c. ad operare trasferimenti di diritti, magari in deroga ai principi che vietano i patti successori o la sostituzione fedecommissaria, non significa ancora negare che la disposizione possa giocare un ruolo importante, tanto nella fase fisiologica, che in quella patologica del rapporto coniugale. Questo è precisamente il tema che forma oggetto del presente scritto.

 

 

11. Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e fondo patrimoniale.

 

Iniziando dunque dal ruolo che l’art. 2645-ter c.c. può svolgere nella fase fisiologica del rapporto coniugale, v’è da chiedersi se il vincolo di destinazione contemplato dalla norma in esame possa costituire una sorta di succedaneo del fondo patrimoniale, il che comporta necessariamente un raffronto tra i due istituti.

Per assolvere a funzioni analoghe a quelle descritte dagli artt. 167 ss. c.c., invero, il vincolo ex art. 2645-ter c.c. dovrebbe essere creato, dai coniugi o da terzi, a beneficio della famiglia, cioè a dire di quella determinata famiglia costituita dai coniugi e dai figli nati e/o nascituri. Peraltro, come appare evidente dalla lettura dell’art. 2645-ter c.c., la destinazione va necessariamente disposta a favore di uno o più soggetti determinati. Ad avviso di chi scrive, la meritevolezza dell’interesse, per le ragioni solidaristiche lumeggiate sopra, è di tale evidenza da consentire anche di collocare la famiglia nel suo complesso tra uno di quegli «altri enti» cui fa richiamo la norma citata, magari valorizzando quell’indirizzo che ormai unanimemente considera tanto la famiglia legittima come quella di fatto quali «formazioni sociali» riconosciute dall’art. 2 Cost.

E’ chiaro che la soluzione, la quale individua come beneficiario del vincolo di destinazione la famiglia nel suo complesso (ed analogo discorso potrebbe valere, ovviamente, per la famiglia di fatto), eviterebbe la necessità di un riferimento specifico ai membri attuali del nucleo in considerazione, e, conseguentemente, il ricorso a non agevolmente ipotizzabili atti di revoca e/o modifica, qualora il nucleo medesimo avesse ad ampliarsi o ridursi.

Ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. sarà quindi ipotizzabile la costituzione di un vincolo nell’interesse della famiglia più «forte» di quello da fondo patrimoniale, per via dell’opponibilità nei confronti di tutti i creditori dei coniugi, anche a prescindere dalla ricorrenza delle condizioni, per così dire, «soggettive» descritte dall’art. 170 c.c., nonché per la diversa ripartizione dell’onus probandi delle condizioni «oggettive».

 

Art. 2645-ter c.c.

Art. 170 c.c.

(…) I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo.

170. Esecuzione sui beni e sui frutti. — L’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può avere luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia.

 

La formulazione dell’art. 170 c.c., invero, impone, per l’opponibilità del vincolo al creditore, non solo l’obiettiva estraneità del credito ai bisogni della famiglia, ma anche la conoscenza, in capo al creditore, di tale estraneità. Stato soggettivo, questo, il cui onere probatorio ricade sul debitore.

Cfr. da ultimo Cass., 15 marzo 2006, n. 5684. V. inoltre, per la giurisprudenza di merito, Trib. Parma, 7 gennaio 1997, in Nuova giur. civ. comm., 1998, I, p. 31, con nota di Mora.

 

 Al contrario, l’art. 2645-ter c.c. si limita a stabilire che «I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo».

Ciò significa, in primo luogo,

·       che sul debitore non graverà l’onere di fornire alcuna prova (e sovente si tratta di vera e propria probatio diabolica) sullo stato soggettivo del creditore al momento della nascita del rapporto obbligatorio e, in secondo luogo,

·       che spetta al creditore dimostrare che il debito è stato contratto «per la realizzazione del fine di destinazione», posto che qui tale fatto viene descritto in positivo, quale elemento costitutivo della fattispecie rappresentata dalla realizzazione in executivis della pretesa creditoria, laddove l’art. 170 c.c. si riferisce ad un elemento impeditivo (descritto in negativo: «l’esecuzione … non può avere luogo…»), che individua inevitabilmente il debitore quale soggetto onerato.

 

Per queste ragioni non appaiono condivisibili le affermazioni di chi sostiene che la norma in tema di destinazione è analoga all’art. 170 c.c. Tesi, questa, che può accettarsi, a tutto concedere, solo limitatamente ai crediti nascenti ex delicto, in relazione ai quali l’obbligazione nasce indipendentemente dalla conoscenza o conoscibilità del vincolo di destinazione, oltre che al di fuori di qualsiasi scelta del creditore, mancando una situazione affidante che giustifichi la limitazione della responsabilità.

Come osserva Di Sapio, op. loc. ultt. citt., «Il creditore non sceglie nulla. Subisce un danno ingiusto. Se potesse scegliere, ragionevolmente sceglierebbe dell’altro: che il fatto illecito non si verifichi».

 

 Così, pur in assenza di una norma analoga all’art. 2447-quinquies, terzo comma, c.c., dovrà affermarsi che, come per il fondo patrimoniale

Cfr. Cass., 5 luglio 2003, n. 8991, in Riv. notar., 2003, p. 1563; Cass., 18 luglio 2003, n. 11230, in Giur. it., 2004, 1615; Trib. Sanremo, 29 ottobre 2003, in Dir. fam. pers., 2004, p. 101.

 

, così nella fattispecie in esame i beni vincolati rispondono ove siano fonte di danni, perché, in entrambi i casi, è il vincolo di destinazione, quale elemento distintivo, a fornire il criterio di riferimento per stabilire le categorie di creditori interessate dalla vicenda destinatoria. 

Altro effetto è sicuramente quello – lasciando da parte, ovviamente, l’ipotesi della revocatoria – dell’esclusione dei beni vincolati dalla eventuale massa fallimentare, se non in relazione a quei debiti contratti «per la realizzazione del fine di destinazione»: ciò in forza del generale riferimento, nella norma in esame, ai «terzi», a prescindere dalla sede nella quale (e dalle modalità con cui) essi facciano valere i loro diritti, nonché avuto riguardo a quella già ricordata parte della disposizione secondo la quale «I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo».

Tale effetto, derivando direttamente dall’art. 2645-ter c.c., non abbisogna di alcuna interpretazione analogica dell’art. 46, primo comma, n. 3, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, così come modificato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, che, per il fondo patrimoniale, prevede l’inclusione dei relativi beni nella massa fallimentare nel caso di ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 170 c.c., inapplicabile, come si è detto, al caso di specie. Inapplicabile appare inoltre, per la sua specialità, l’art. 155, r.d. cit., che attribuisce al curatore, nel caso di patrimonio destinato ad uno specifico affare, ex art. 2447-bis c.c., l’amministrazione del patrimonio medesimo.

D’altro canto, per ciò che attiene agli eventuali atti dispositivi, se il vincolo ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. può sembrare a tutta prima più «debole» di quello da fondo patrimoniale, avuto riguardo alla non necessità di autorizzazione giudiziale per gli atti ex art. 169 c.c. in presenza di figli minorenni, è anche vero che la regola appena citata risulta, quanto meno secondo l’opinione dominante, derogabile.

Inoltre, l’effettuazione della pubblicità del vincolo rende comunque il vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. opponibile verso ogni subacquirente, a differenza di quello che accade allorquando i coniugi si siano riservati la facoltà di alienazione dei beni del fondo patrimoniale senza autorizzazione (ovvero quando, in presenza della necessità di autorizzazione, quest’ultima sia stata rilasciata), posto che, in tal caso, il terzo acquista il bene certamente libero dal vincolo.

L’art. 2645-ter c.c. permette poi anche la costituzione di un vincolo nell’interesse della famiglia al di là delle ipotesi in cui l’istituto ex artt. 167 ss. c.c. è consentito:

·       a parte la ammissibilità di un vincolo in favore di un ménage di fatto,

·       il conferente potrà, anche in relazione ad una famiglia fondata sul matrimonio, derogare a quanto stabilito dall’art. 171 c.c., stabilendo ad esempio che il vincolo non cessi (ed anzi, questa sarà la regola, atteso il principio che autorizza una durata dello stesso per novanta anni o per tutta la vita della persona fisica beneficiaria) in caso di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, pur in assenza di figli minori.

 

 

12. Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e convenzioni matrimoniali.

 

Una volta provata l’idoneità, quanto meno in astratto, della destinazione di uno o più beni, ai sensi dell’art. 2645-ter c.c., a realizzare gli interessi di un determinato nucleo familiare, tratteggiate le differenze tra questo tipo di vincolo e quello creato dal fondo patrimoniale, occorre però inevitabilmente porsi l’interrogativo sul rapporto tra il negozio istitutivo del vincolo e la categoria delle convenzioni matrimoniali.  

Sul punto sarà appena il caso di premettere che il problema non avrebbe, con ogni probabilità, neppure ragione di porsi, qualora si dovesse ritenere di limitare in via tassativa le convenzioni matrimoniali a quelle regolate nel capo sesto del titolo sesto del libro primo del codice. Ma è noto che la tesi ormai prevalente afferma il carattere atipico delle convenzioni e dei relativi regimi patrimoniali: se dunque all’autonomia negoziale è concesso di liberamente dar vita a convenzioni matrimoniali disegnanti regimi diversi da quelli previsti dagli artt. 159 ss. c.c., a maggior ragione sarà consentito ai coniugi di avvalersi di strumenti negoziali tipici (ancorché non previsti da norme tipicamente giusfamiliari) per conseguire il risultato di ottenere un regime divergente da quelli legislativamente nominati come tali.

Non sembra che significative obiezioni possano insorgere avuto riguardo al carattere essenzialmente unilaterale dell’atto costitutivo del vincolo. La questione è già stata affrontata dallo scrivente con riguardo al trust, rispetto al quale si era osservato che le più approfondite trattazioni in materia evidenziano come – a parte la questione della dinamica contrattuale esistente nel mondo dei trusts – anche per il diritto inglese dall’accettazione del trustee (ancorché eventualmente in forma implicita) non possa prescindersi, prevedendo del resto l’equity procedure per sostituire un trustee che sia mancato e per nominare un altro trustee qualora quello indicato dal disponente non abbia accettato. Se ne era quindi concluso che,  per diritto italiano, un accordo che vedesse un coniuge (o un terzo) costituire beni in trust, nominando trustee l’altro, andrebbe qualificato alla stregua di un negozio bilaterale e dunque di una «convenzione matrimoniale», se diretto alla creazione di un regime patrimoniale, intendendosi per tale (come, del resto, già specificato sopra), non solo l’insieme delle regole che precostituiscono la sorte di una serie indeterminata d’acquisti (determinabili unicamente ex post), compiuti dai coniugi, bensì anche l’insieme di quelle regole che precostituiscono (e qui il fondo patrimoniale docet) l’eventuale separazione patrimoniale di una certa massa determinata di beni apportati ad onera matrimonii ferenda, oltre che i principi per la loro amministrazione ed alienazione.

Allo stesso modo potrà dunque riconoscersi nella creazione del vincolo ex art. 2645-ter c.c., alle condizioni predette, la natura di convenzione matrimoniale, allorquando il negozio costitutivo nell’interesse della famiglia assuma una struttura

·       bilaterale o

·       plurilaterale (si pensi alla costituzione di un vincolo su beni di entrambi i coniugi e/o di terzi, sulla base di un accordo tra tutti i soggetti coinvolti) e pertanto possa qualificarsi come «convenzione», cioè accordo di due o più soggetti.

Probabilmente alle medesime conclusioni potrà pervenirsi anche in relazione ad una manifestazione puramente unilaterale di volontà, posto che la strettissima connessione esistente tra i concetti di convenzione matrimoniale e di regime patrimoniale della famiglia (di cui si dirà tra poco) può forse consentire di ampliare la prima delle due nozioni, al punto da comprendere ogni tipo di atto idoneo, secondo la legge, a dar vita ad un regime, a prescindere dalla struttura unilaterale, bilaterale o plurilaterale dell’atto stesso.

       L’ostacolo potrebbe essere, semmai, un altro.

Se, invero, dovesse seguirsi quell’opinione dottrinale secondo cui la convenzione può dar vita solo ad una scelta tra un regime comunitario o un regime separatista, con assoluta esclusione di qualsiasi altro tipo di effetto, vuoi reale, vuoi obbligatorio, non potrebbe esservi spazio per una convenzione matrimoniale che si limitasse invece a porre, nell’interesse della famiglia, vincoli su beni determinati, che si trovino già nella titolarità dell’uno e/o dell’altro dei coniugi o di terzi. Ed in effetti i sostenitori di quella tesi si vedono, per coerenza, costretti a negare la natura di convenzione matrimoniale del negozio inter vivos costitutivo di fondo patrimoniale, così come la natura di regime, propria dell’istituto ex artt. 167 ss. c.c.

Questa tesi, però, appare chiaramente smentita non solo – se ci si passa l’espressione – dalla «topografia» e dalla «toponomastica» legislative

Il fondo patrimoniale si trova collocato nel codice tra la parte generale delle convenzioni matrimoniali e la comunione legale, all’interno di una sezione posta sullo stesso piano di quelle dedicate alla comunione legale, alla comunione convenzionale, alla separazione dei beni e all’impresa familiare.

Gli artt. 167 ss. fanno pur sempre parte del capo sesto (del titolo sesto del libro primo del codice), intitolato «del regime patrimoniale della famiglia», dopo una parte generale che, come si è appena detto, è interamente dedicata alle convenzioni matrimoniali

 

, ma anche dal fatto che, per i beni sottoposti a tale vincolo, vigono regole (di «regime») difformi rispetto a quelle valevoli per la comunione legale: il negozio che al fondo dà vita è pertanto riconducibile alla definizione che del concetto di convenzione matrimoniale risulta estrapolabile dall’art. 159 c.c., come di quel negozio idoneo a dar luogo ad un regime patrimoniale della famiglia.

 

 

13. Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e regimi patrimoniali della famiglia. Forma dell’atto costitutivo e norme applicabili.

 

Il fatto è che occorre intendersi sul concetto di regime: se per tale si dovesse ritenere esclusivamente la regola che assegna alla proprietà comune o personale dei coniugi i futuri ed eventuali acquisti, è chiaro che la convenzione ex artt. 167 ss. c.c. non apparirebbe idonea all’uopo, posto che il vincolo del fondo – e, oggi, quello ex art. 2645-ter c.c. – non può per definizione costituirsi se non su beni predeterminati.

Seguendo dunque il principio secondo cui la convenzione matrimoniale è necessariamente fonte di un regime patrimoniale della famiglia (arg. ex art. 159 c.c.), se ne dovrebbe concludere che tale non potrebbe essere l’accordo diretto a costituire un fondo patrimoniale. Ma la disciplina della comunione legale dimostra che il concetto di «regime» non si esaurisce nella regola del coacquisto; essa si risolve anche in una serie di precetti e di vincoli che vengono ad influenzare la «vita» stessa dei beni nel corso dell’unione matrimoniale: dall’amministrazione all’alienazione, al pignoramento e, più in generale, alle vicende che coinvolgono terzi creditori e/o aventi causa.

E puntuale giunge, anche sul punto, la conferma dall’analisi storica, dalla quale si ricava che l’espressione régime (dal latino regere: governare, amministrare), utilizzata per secoli in Francia per contrapporre il régime en communauté (proprio delle regioni di droit coutumier) a quello dotal (caratteristico delle regioni di droit écrit), e dunque nell’accezione, generalissima, di «regola», dopo la codificazione napoleonica venne intesa dalla dottrina come «l’ensemble des règles qui régissent l’association conjugale quant aux biens».

Così Laurent, Principes de droit civil, XXI, Bruxelles, 1878, p. 8.

 

 Regole che, come icasticamente posto in evidenza dalla dottrina contemporanea d’Oltralpe, attengono non solo ad una question de propriété, ma anche ad una question de pouvoirs.

[1] Cfr. Flour e Champenois, Les régimes matrimoniaux, Paris, 1995, p. 5.

 

Se così stanno le cose, è evidente che anche la convenzione costitutiva del fondo patrimoniale, in quanto diretta a dettare regole speciali di amministrazione, vincoli e «vita» di beni della famiglia, in (parziale) deroga ai principi propri della comunione (o della separazione dei beni), viene a costituire proprio uno di quei possibili negozi in deroga al regime legale che l’art. 159 c.c. raggruppa sotto l’espressione «diversa convenzione».

Ne discende dunque ulteriormente che, per identiche ragioni, alle stesse conclusioni deve pervenirsi con riguardo ad un vincolo costituito ex art. 2645-ter c.c. nell’interesse della famiglia.

 

       Riconosciuta la natura di convenzione matrimoniale propria dell’atto costitutivo di un vincolo di destinazione in favore di una determinata famiglia, dovrà ulteriormente concludersi che, ai sensi dell’art. 48 l. notar., così come riformato dall’art. 12, lett. b) e c), l. 28 novembre 2005, n. 246, l’atto richiederà, per la sua validità, non solo la forma dell’atto pubblico, ma anche la presenza di due testimoni.

Inoltre, al negozio saranno applicabili le norme di cui agli artt. da 160 a 166-bis c.c., il che non dovrebbe determinare insormontabili problemi di coordinamento, se si eccettua la questione, indubbiamente seria, della «concorrenza» tra il sistema pubblicitario (contraddittoriamente) disciplinato dagli artt. 162, quarto comma, e 2647 c.c., da un lato, e quello, incontrovertibilmente imperniato sulla trascrizione con effetti di pubblicità dichiarativa, di cui all’art. 2645-ter c.c., dall’altro.

 

 

14. La costituzione di un vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. su beni in comunione legale o convenzionale, ovvero su beni costituiti in fondo patrimoniale.

 

       L’eventuale costituzione di vincoli ex art. 2645-ter c.c. (vuoi nell’interesse della famiglia, vuoi di terzi) su beni in comunione legale costituisce sicuramente atto di straordinaria amministrazione, con conseguente applicabilità degli artt. 180 ss. c.c. ed in particolare del rimedio dell’annullabilità dell’atto, ex art. 184 c.c., se compiuto senza il necessario consenso del coniuge.

Peraltro potrebbe revocarsi in dubbio la stessa ammissibilità di un’operazione diretta a vincolare beni della comunione legale per effetto di un atto posto in essere da entrambi i coniugi, nella veste di «conferenti», alla luce della tesi che contesta la possibilità di estromettere singoli beni dalla comunione, durante la vigenza di quest’ultima. Il risultato dell’operazione sarebbe invero costituito dall’assoggettamento di uno o più beni, destinati a rimanere di proprietà comune dei coniugi, a regole diverse da quelle proprie della comunione legale.

L’argomento appare strettamente connesso alla vexata quaestio dell’ammissibilità di un rifiuto preventivo del coacquisto ex lege previsto dall’art. 177 lett. a), d) e cpv. c.c., controversia rinfocolata dall’ultima decisione di legittimità sul tema che, andando di contrario avviso rispetto ad un precedente del 1989, si è spinta ad affermare che, manente communione, «il coniuge non può rinunciare alla comproprietà di singoli beni acquistati durante il matrimonio (e non appartenenti alle categorie elencate nell’art. 179, co. 1°, c.c.) salvo che sia previamente o contestualmente mutato, nelle debite forme di legge e nel suo complesso, il regime patrimoniale della famiglia».

Cass., 27 febbraio 2003 n. 2954, in Foro it., 2003, I, c. 1039, con nota di De Marzo; in Riv. notar., 2003, II, p. 412, con nota di Lupetti; in Fam. dir., 2003, p. 559, con nota di F. Patti. Per ulteriori richiami e approfondimenti v. Oberto, Lezioni sull’oggetto della comunione legale, § III. 19, 20, disponibile al sito web seguente:

http://giacomooberto.com/lezionisucomunione/lezionisuoggettocomunionesommario.htm

 

Rinviando ad altra sede la critica di tale opinabilissima conclusione, basterà dire che, qualora essa dovesse venire trasposta alla materia qui in esame, dovrebbe ritenersi inibito – sempre, ovviamente, nell’ottica, da chi scrive non condivisa, della Cassazione – ai coniugi in comunione di vincolare uno o più beni del patrimonio comune, se non previa stipula di convenzione di passaggio al regime di separazione.

E’ innegabile infatti che la sottoposizione di beni al vincolo, pur senza espropriare i coniugi della contitolarità del diritto dominicale sui beni stessi, sottrarrebbe questi ultimi al regime proprio della comunione legale (si pensi alle norme in tema di amministrazione e di rapporti con i creditori, tanto comuni che personali dei coniugi), così determinandone una forma di «estromissione» dalla massa soggetta all’applicazione degli artt. 177 ss. c.c.

Lo stesso discorso dovrebbe valere anche in relazione alla comunione convenzionale, per lo meno con riguardo ai beni che formerebbero comunque oggetto della comunione legale. Con riferimento a questi ultimi, infatti, l’art. 210 c.c. vieta che si predispongano norme d’amministrazione difformi da quelle ex artt. 180 ss. c.c. Il risultato sarebbe quindi ottenibile solo mediante estromissione di tali beni dalla comunione. Per questo motivo sarebbe con ogni probabilità nulla una convenzione che volesse sottoporre al vincolo ex art. 2645-ter c.c. i beni (immobili o mobili registrati) di futura acquisizione destinati a ricadere in comunione legale o convenzionale.

Per quanto riguarda invece i beni già caduti in comunione convenzionale, ma non interessati dal limite posto dall’art. 210 c.c. (si pensi a quelli, per esempio, di cui all’art. 179, lett. a), c.c.), non dovrebbero sussistere problemi di sorta, non potendosi paventare qui la possibilità – prospettata in relazione al trust familiare – di una violazione dell’art. 166-bis c.c. per la convenzione che, «ampliando l’oggetto della comunione convenzionale, attribuisca, in relazione a beni diversi da quelli che avrebbero formato oggetto di comunione legale, il potere di amministrazione al coniuge che non sia il proprietario del bene conferito nella comunione convenzionale».

In proposito sarà il caso di ribadire che, qualora si supponga che la convenzione sia del tipo «ampliativo», ciò significa che il coniuge (eventualmente) unico amministratore è contitolare della proprietà sui beni che amministra. L’ipotesi è dunque diversa da quella «paradigmatica» della dote che, come si è visto in altra sede, è caratterizzata da un completo «scollamento» tra titolarità del diritto reale e potere di amministrazione sui relativi beni. Ne consegue che, ad avviso dello scrivente, i coniugi in regime di comunione convenzionale potranno senz’altro vincolare beni che non avrebbero fatto parte della comunione legale, prevedendo quale beneficiario la famiglia, ovvero anche uno solo dei suoi membri (oltre che, ovviamente, terzi familiari e/o estranei), senza curarsi in modo alcuno delle regole in tema di amministrazione della comunione legale.

 

La costituzione di un vincolo ex art. 2645-ter c.c. su beni già costituiti in fondo patrimoniale presuppone la previa estinzione del vincolo ex artt. 167 ss. c.c. L’operazione necessita dell’autorizzazione ex art. 169 c.c., qualora essa non sia stata esclusa dal titolo costitutivo. Al riguardo potrà soccorrere la giurisprudenza in tema di trust, con particolare riguardo a quella decisione di merito

Cfr. Trib. Firenze, 23 ottobre 2002, in Trusts att. fid., 2003, p. 406.

 

 che ha respinto un ricorso tendente a consentire lo scioglimento anticipato del fondo patrimoniale affinché i beni in esso inclusi fossero vincolati nel trust.

La decisione poggia sul rilievo secondo cui, nonostante l’analogia di effetti tra trust e fondo patrimoniale, al potere di disposizione del trustee non veniva posto alcun limite né, conseguentemente, onere di richiedere autorizzazione giudiziale (come invece richiesto, nel caso di specie, ai sensi dell’art. 169 c.c. nel caso del fondo patrimoniale). E’ evidente che, in una situazione analoga, anche la sottoposizione a vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. di beni oggetto di fondo patrimoniale (in caso il titolo costitutivo non escludesse la necessità dell’autorizzazione ex art. 169 c.c.) priverebbe il vincolo delle garanzie proprie del regime autorizzativo previsto dalla norma in esame e pertanto non potrebbe essere autorizzata.

 

 

15. Vincoli di destinazione e crisi coniugale: i rapporti con il trust.

 

Passando dalla fase fisiologica a quella patologica del rapporto matrimoniale vi è ora da prendere in considerazione il ruolo che la norma sui vincoli di destinazione potrebbe giocare nella crisi coniugale. Lo spunto appare avvalorato dalla considerazione dei rilievi critici che lo scrivente ha avuto modo di rivolgere all’utilizzo del trust in questo delicato settore, secondo quanto invece suggerito da diverse voci.

Così, per esempio, non è mancato chi ha affermato che il trust potrebbe costituire uno strumento di estrema importanza allo scopo di intervenire efficacemente nella genesi della crisi della coppia, e quindi, nel momento antecedente l’inizio del procedimento di separazione o divorzio o in un secondo momento, successivo alla conclusione di questi procedimenti, una volta che la volontà delle parti (in sede consensuale) o la determinazione del giudice (in sede contenziosa) abbiano imposto un contributo di mantenimento o un assegno a carico di un coniuge.

Cfr. Nassetti, Il trust: applicazioni pratiche (Aggiornamento in pillole per il consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bologna – Relazione tenuta a Bologna il 16 febbraio 2001), disponibile all’indirizzo web seguente:

http://www.filodiritto.com/diritto/privato/civile/IlTrustApplicazionipratiche.htm.

 

L’effetto segregativo proprio del trust consentirebbe di opporre il vincolo ai creditori del disponente, così garantendo il pagamento delle prestazioni periodiche in favore del coniuge e/o alla prole anche di contro a possibili azioni esecutive di terzi, fatte salve, beninteso, eventuali domande revocatorie. A ciò s’aggiunga che il trasferimento del bene al trustee, nel caso di immobili, titoli azionari o altri beni soggetti a forme di pubblicità, comporta formalità che da sole impediscono atti di disposizione illegittimi: chiunque sia il trustee (il coniuge obbligato o un terzo) sarebbero pertanto prevenuti atti di disposizione in danno degli interessi protetti.

Ove si dovesse ammettere il trust interno e, in ogni caso, per il trust creato in situazioni caratterizzate dalla obiettiva presenza di un elemento di estraneità, siffatto vincolo potrebbe essere costituito nell’ambito dello stesso negozio di separazione consensuale, di separazione di fatto, o di divorzio su domanda congiunta: le parti verrebbero così a porre in essere lo strumento attraverso il quale determinare le modalità di adempimento degli obblighi ex artt. 155 ss., 156 c.c., 5 e 6 l. div.

D’altro canto e sempre, ovviamente, sulla base di un accordo inter partes, un trust potrebbe rappresentare il mezzo per garantire l’esecuzione di obblighi di mantenimento e di assegni già determinati, precedentemente, dalle parti medesime (in sede, per l’appunto, di separazione consensuale omologata, di separazione di fatto, ovvero di divorzio su domanda congiunta, ovvero ancora in sede di crisi coniugale contenziosa). Per questa specifica ipotesi andrà tenuto presente che, secondo l’opinione ormai prevalente in dottrina e giurisprudenza, le condizioni della separazione e del divorzio ben possono essere mutate dai coniugi senza dover ricorrere ad alcun tipo particolare di procedura giudiziale.

 

Si è poi anche rimarcato che «l’istituzione di un trust avrebbe una valenza estremamente garantista relativamente ai diritti alimentari o di mantenimento vantati da coniuge e prole, in quanto consentirebbe di isolare le risorse del coniuge obbligato al mantenimento, o agli alimenti, affinché non possano essere distolte dall’adempimento di queste obbligazioni». Il primo positivo effetto sarebbe infatti quello di evitare qualsiasi conflitto fra i creditori del coniuge obbligato e i creditori della prestazione alimentare, posto che questi ultimi sarebbero pienamente garantiti. Siffatte indicazioni sono già state recepite nella prassi, che annovera verbali di separazione omologati, contenenti la previsione di trusts.

Ora, se non vi è dubbio che il trust – sempre, ovviamente, a condizione che lo si ritenga ammissibile nella versione «interna» e salvo l’eventuale esperimento dei rimedi revocatori – consente il vantaggio di una separazione patrimoniale, in grado di tutelare adeguatamente i creditori delle prestazioni postmatrimoniali nei confronti dei possibili creditori dell’obbligato, altrettanto condivisibile non appare l’affermazione secondo la quale l’ordinamento civilistico italiano non offrirebbe alternative all’istituto di matrice anglosassone per il raggiungimento di siffatta finalità di garanzia del coniuge separato e della relativa prole.

 

 

16. I vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. nel sistema delle garanzie delle prestazioni postmatrimoniali.

 

       Si è avuto modo di evidenziare in altre sedi quanto possa dirsi articolato il complesso sistema di garanzie apprestato dall’ordinamento per l’adempimento degli obblighi derivanti dalla separazione o dal divorzio: basti pensare

·       all’obbligo di prestare idonea garanzia reale o personale,

·       all’iscrizione dell’ipoteca giudiziale ai sensi dell’articolo 2818 c.c.,

·       al sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato,

·       all’ordine ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di danaro all’obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto (ex artt. 156, quarto, quinto e sesto comma, c.c., 8, primo, secondo e settimo comma, l. div.),

·       alla distrazione dei redditi ed all’azione diretta esecutiva ex art. 8, terzo, quarto, quinto e sesto comma, l. div.,

·       al decreto ex art. 148, secondo, terzo, quarto e quinto comma, c.c.,

·       ai rimedi (malamente) apprestati dall’art. 709-ter c.p.c.

 

In proposito, va detto che il rilievo secondo il quale i limiti del sistema di garanzia così delineato emergerebbero proprio nelle ipotesi in cui il soggetto debitore non sia, invece, intestatario di beni, non vale ad attribuire alcuna specifica ragione di preferenza all’istituto del trust: in mancanza, invero, di una titolarità di beni in capo al coniuge obbligato, non sarebbe evidentemente possibile neppure l’istituzione di un trust o il conferimento di beni da parte di quest’ultimo.

       A ciò s’aggiunga che nulla esclude che, in considerazione del carattere negoziale (e, per quanto attiene agli accordi di carattere patrimoniale, contrattuale), delle intese in discorso, possano trovare applicazione le garanzie e gli strumenti di induzione all’adempimento previsti in generale dal codice:

·       dalla fideiussione,

·       all’ipoteca volontaria (si pensi alle intese concluse nell’ambito di una separazione di fatto, ove l’art. 2818 c.c. non può, evidentemente, trovare applicazione),

·       alla clausola penale,

·       alla caparra confirmatoria.

 

Se, dunque, il vero problema è quello di poter vincolare un determinato patrimonio in vista della soddisfazione degli obblighi oggetto del contratto della crisi coniugale, va preso atto che ai «tradizionali» rimedi cui si è appena accennato viene ora ad aggiungersi lo strumento delineato dall’art. 2645-ter c.c., di sicura applicazione (anche nelle situazioni non caratterizzate dalla presenza di un elemento di internazionalità) ai casi di specie. L’intento di garantire l’adempimento delle obbligazioni assunte nella predetta sede, o di sopperire alle necessità abitative del residuo nucleo familiare, appare infatti senza dubbio meritevole di tutela.

 

A differenza di quanto accade con il trust, non sarà però possibile, ad avviso dello scrivente, prevedere ex art. 2645-ter c.c. un trasferimento del bene al beneficiario finale. Ciò che del resto, anche rispetto al trust viene sovente a porre, con riguardo alla nostra legislazione, seri problemi di compatibilità con taluni istituti del diritto successorio (e di ammissibilità stessa del trust, ai sensi dell’art. 15 della Convenzione de L’Aja): la clausola di ritrasferimento, se legata alla morte del trustee, potrebbe invero incorrere in nullità per violazione del divieto dei patti successori e, se contenuta in una disposizione mortis causa, per violazione del principio che fa divieto di creare nelle successioni un ordo successivus.

 

 

17. La forma di costituzione dei vincoli ex art. 2645-ter c.c. nella crisi coniugale. Il trattamento fiscale dell’atto.

 

L’art. 2645-ter c.c. prevede che il vincolo di destinazione sia costituito per atto pubblico, senza peraltro specificare che debba necessariamente trattarsi di atto notarile. Il fatto che l’art. cit. non menzioni espressamente l’intervento di un notaio consente di fare tesoro di quella evoluzione dottrinale e giurisprudenziale, che, a partire dai lavori dello scrivente, ha portato a riconoscere natura a tutti gli effetti di atto pubblico ex art. 2699 c.c. al verbale d’udienza di separazione consensuale o di divorzio su domanda congiunta.

Dovrà dunque ritenersi consentito, nell’ambito di un contratto della crisi coniugale (e dunque a patto che le relative intese possano intendersi alla stregua di condizioni della separazione  o del divorzio), proporre al cancelliere, sotto la direzione (art. 130 c.p.c.) del giudice (vuoi monocratico, vuoi collegiale, a seconda dei casi), la creazione di un vincolo nell’interesse di uno dei coniugi e/o dei figli (maggiorenni o minorenni che siano), o anche, a seconda dei casi, di taluni soltanto di essi.

Il tutto, naturalmente, a condizione che il complesso delle condizioni concordate soddisfi il canone irrinunciabile dell’interesse dei minori eventualmente coinvolti e sul presupposto (non richiesto tanto dalla legge, quanto dalle necessità pratiche e dalla complessità del sistema) che le parti stesse siano sul punto adeguatamente assistite e consigliate. Il relativo verbale costituirà dunque titolo idoneo per la trascrizione, anche ai sensi dell’art. 2645-ter c.c.

Da un punto di vista più generale, anzi, non è escluso che – anche al di fuori dei procedimenti di separazione e di divorzio – il cancelliere, sotto la direzione del giudice, possa ricevere la costituzione di un vincolo di destinazione, purché siffatta costituzione s’inquadri in una di quelle attività negoziali che il cancelliere è espressamente chiamato dalla legge a documentare.

Ci si intende qui riferire in particolare al verbale di conciliazione giudiziale (e in proposito si noti che l’art. 185 c.p.c. prevede, al capoverso, che in caso di conciliazione giudiziale, si formi «processo verbale della convenzione conclusa»; cfr. inoltre art. 88 disp. att. c.p.c.), il quale ben potrà contenere un siffatto negozio, nel quadro di un più ampio accordo transattivo, sempre a condizione, beninteso, che il vincolo risponda ad interessi meritevoli di tutela, secondo quanto specificato altrove. Così, ad esempio, si potrà stabilire che l’attore rinunzia agli atti processuali ed all’azione, in cambio dell’impegno del convenuto a costituire su determinati immobili un vincolo di destinazione in favore di una certa fondazione benefica o del figlio disabile dell’attore medesimo.

Sotto il profilo fiscale vi è, infine, da ribadire che le attribuzioni patrimoniali operate nel quadro di un ipotetico trust postconiugale (ovviamente, sempre a condizione che si ritenga ammissibile – come invece qui si nega – il trust interno) ricadrebbero comunque, ove «relative» ad un procedimento di separazione o divorzio, sotto il disposto dell’art. 19, l. 6 marzo 1987, n. 74, esteso, come noto dalla Corte costituzionale alla separazione legale.

Cfr. Corte cost., 10 maggio 1999, n. 154, in Foro it., 1999, I, c. 2168; in Giur. it., 1999, p. 2187; in Riv. notar., 2000, II, p. 657, con nota di Lucariello.

 

 Identiche argomentazioni valgono sicuramente anche per gli atti costitutivi di vincoli ex art. 2645-ter c.c., nonché per gli eventuali trasferimenti ad essi collegati, se e nella misura in cui questi si ritengano ammissibili. Il tutto, naturalmente, a patto che tali negozi possano dirsi parte delle condizioni della separazione consensuale (o «consensualizzata»), ovvero del divorzio su domanda congiunta (o su conclusioni congiunte delle parti) e, come tali, per l’appunto, «relativi» a siffatte procedure.

 

 

18. Alcuni casi pratici in materia di utilizzo del trust e del vincolo ex art. 2645-ter c.c. nell’ambito della crisi coniugale.

 

Venendo ora ad esaminare il profilo casistico, potrà dirsi che, sempre in relazione alla crisi coniugale, si è poi ipotizzato un caso pratico relativo ad una disposizione volta a consentire ad un figlio, maggiorenne ma non autosufficiente e convivente con la madre, di proseguire gli studi dopo il conseguimento del diploma di maturità, in una situazione in cui, avvenuta l’adozione dei provvedimenti provvisori da parte del presidente del tribunale investito del giudizio di separazione o divorzio e disposta la prosecuzione della causa avanti il giudice istruttore, la moglie pretenda di veder riconosciuto per sé e per il figlio un assegno di mantenimento più consistente.

Cfr. Carrera, Disposizioni di trust in sede di separazione o divorzio per mantenere un figlio agli studi, relazione presentata al «Laboratorio di trust» organizzato dal «Gruppo torinese del trust», tenutosi a Torino il 21 novembre 2003 (testo cortesemente messo a disposizione dello scrivente in forma elettronica dall’Autrice).

 

Qui il marito potrebbe essere disposto ad accedere alle richieste relative al figlio, pur non essendo incline a concedere per questo alla moglie un assegno più sostanzioso. In siffatta situazione si è prospettata l’istituzione di un trust autodichiarato  da parte del marito, con previsione, in caso di sopravvenuta impossibilità in capo al trustee (cioè il marito stesso) di una sostituzione di quest’ultimo, magari individuandosi l’eventuale sostituto nella persona di un professionista, ovvero del legale fiduciario che lo assiste nella causa di separazione o divorzio. Il beneficiario, in questo caso identificato fin dal momento dell’istituzione del trust nella persona del figlio, sarebbe il destinatario immediato delle utilità e dei valori prodotti dalle somme «segregate» in trust, e sarebbe beneficiario nei limiti prefissati nell’atto istitutivo. Egli diverrebbe così titolare di un diritto di natura personale e che gli consentirebbe di agire nel caso in cui il trustee non ottemperasse alle prescrizioni contenute nell’atto istitutivo; egli potrebbe anche richiedere all’autorità giudiziaria la revoca del trustee inadempiente.

 

Il termine di durata proposto, sempre nella ipotesi pratica prospettata, coinciderebbe nella specie con quello consono alla durata del corso di studi universitari già prescelto dal figlio, con la possibile estensione ad uno o due anni in più, per andare incontro alle eventuali difficoltà o ritardi che il ragazzo dovesse accusare. Allo spirare del termine o al raggiungimento dello scopo (conseguimento della laurea) il trust dovrebbe trovare la sua fine fisiologica, fatta salva la possibilità di inserire nell’atto istitutivo una clausola di ultrattività del trust, nel limite del patrimonio conferito, per soddisfare le esigenze di frequentazione di scuole di specializzazione, di corsi avanzati, master o quant’altro. Nel caso il trust dovesse essere istituito nelle more fra il conseguimento del diploma di scuola superiore e l’iscrizione ad un corso universitario, si è altresì proposto di sottoporre il trust a condizione sospensiva, tale per cui, qualora il figlio dovesse mutare orientamento e non iscriversi all’università, il trust non esplicherebbe alcuna efficacia.

 

Parimenti, si è proposto l’inserimento di una clausola risolutiva per le seguenti evenienze:

·      il figlio interrompe il ciclo di studi;

·      il figlio consegue anzitempo al completamento degli studi l’indipendenza economica (ad esempio trova un lavoro);

·      il figlio o la ex moglie, convengono il marito in giudizio per ottenere la modifica delle condizioni della separazione o del divorzio ovvero, maturato il termine per la proposizione della domanda di divorzio, avanzano nuove pretese che costringono all’apertura di un nuovo contenzioso.

Con riferimento a tale ultima specifica previsione andrà però subito detto che questa potrebbe essere ritenuta inconciliabile con la consolidata giurisprudenza di legittimità che, come noto, non consente la conclusione di intese preventive in vista del divorzio, in considerazione di un supposto «commercio dello status di coniuge».

 

Sempre secondo la proposta citata, accanto al beneficiario diretto delle somme «segregate» in trust (il figlio), potrebbe esservi la figura di un beneficiario finale che, nel nostro caso, potrebbe essere ancora il figlio, nel caso in cui il padre desiderasse premiarlo e lasciargli definitivamente l’eventuale patrimonio residuato al conseguimento dello scopo del trust; oppure, potrebbe essere il disponente stesso, che in tal modo rientrerebbe nella piena disponibilità del proprio patrimonio.

 

* * *

 

       Altro caso pratico in materia è quello che ha formato oggetto di verbale di separazione consensuale omologata dal Tribunale di Milano con decreto Trib. Milano, 23 febbraio 2005.

http://giacomooberto.com/milano11giugno2005trust/giurisprudenza/TribMilano23feb05verbaleseparazioneconiugi.pdf

 

Il provvedimento è altresì edito in Fam. pers. succ., 2005, p. 302 ss., con nota critica di Costanza, Il trust una soluzione non sempre appropriata, la quale, oltre a sollevare perplessità sulla possibilità di costituire trusts auto-dichiarati, al di fuori dei casi in cui la costituzione del trust non risieda in uno scopo caritatevole, osserva che la realizzazione dello scopo del trust rimarrebbe comunque affidata alla fedeltà del trustee, senza che con l’istituzione del trust siano create in capo ai beneficiari posizioni reali di diritto all’acquisto della titolarità del bene vincolato. Per un’analoga decisione v. anche Trib. Pordenone, 20 dicembre 2005, in Trusts e att. fiduc., 2006, p. 247 ss.

 

Qui, nell’ambito della varie condizioni della separazione, uno dei coniugi, al fine di provvedere alle esigenze abitative della figlia minore sino a che non avrà completato il ciclo di studi e raggiunto l’autonomia economica, istituisce un trust autodichiarato avente ad oggetto un bene immobile.

 

Tra le varie clausole si noti la seguente, che potrebbe porre problemi in tema di divieto di patti successori ed eventuale lesione della legittima (con riferimento anche all’art. 15 della Convenzione dell’Aja):

 

 

Al rigurado potrà notarsi che, ove il trust si pieghi ad una finalità successoria, una possibile sua interferenza con il divieto dei patti successori non può dirsi scongiurata per il sol fatto che una convenzione internazionale ne riconosca l’operatività anche nel nostro paese: la Convenzione dell’Aja all’art. 4 fa infatti salve le norme di diritto interno relative alla validità del testamento o dell’atto costitutivo del trust. Resta allora aperta la porta all’operatività virtuale del divieto?

La risposta al quesito richiede la soluzione di un problema a monte. Se l’art. 458 c.c. parla di «convenzioni» ed è intitolato ai «patti», la sua sfera di applicazione, stando ad un’interpretazionme letterale della norma, dovrebbe non ricomprendere il trust, la cui fonte è un testamento ovvero un atto unilaterale fra vivi, non già un contratto. D’altra parte è anche vero che il beneficiary è normalmente al corrente del fatto di essere il destinatario di un’attribuzione patrimoniale da parte del settlor: potrebbe allora darsi il caso in cui la costituzione di un trust adombri un patto in frode alla legge per il fatto di costituire il modo di aggirare il divieto dei patti successori.

 

Da notare che sempre il Tribunale di Milano (Trib. Milano, 7 giugno 2006, in Trust e attiv. fiduc., 2006, p. 575 ss., commentato da Monegat, Separazione consensuale dei coniugi, trust e vincolo del trust sui beni costituiti in fondo patrimoniale, ivi, 2007, p. 243 ss.) ha ritenuto possibile l’omologa delle condizioni di separazione personale consensuale dei coniugi con le quali veniva prevista l’istituzione di un trust al fine «di ulteriormente segregare i beni conferiti nel fondo patrimoniale per sottrarli alle proprie vicende personali e successorie e, in generale, per poter trarre da essi utilità, sia direttamente, sia indirettamente, da destinare ai bisogni della famiglia». Nella fattispecie dunque il vincolo nascente dal trust andava a sovrapporsi a quello costituito con il fondo patrimoniale tanto da essere state previste regole particolari relativamente all’amministrazione dei beni oggetto del vincolo nella vigenza del fondo patrimoniale. Al riguardo va infatti notato che il patto relativo stabiliva testualmente quanto segue: «Art. 9 Amministrazione del Trust. A. Fintanto che duri il vincolo nascente dal Fondo patrimoniale 1. Gli atti di amministrazione non richiedono il concorso del Trustee; 2. Gli atti di disposizione – non richiedono il concorso del trustee qualora siano preordinati al reimpiego nel Fondo patrimoniale, – richiedono il previo consenso del Trustee in caso diverso; 3. Gli atti che gravano o vincolano o sottopongono a garanzia beni inclusi nel Fondo patrimoniale richiedono il previo consenso del Trustee ».

 

Di diverso avviso il Tribunale di Firenze che, con il ricordato provvedimento in data 23 ottobre 2002, rilevata l’insussistenza dei presupposti legittimanti la modifica delle condizioni di separazione, respinge il ricorso ai sensi dell’art. 169 c.c., perché, rilevato che i coniugi non avevano derogato, quanto alla possibilità di procedere all’alienazione dei beni costituiti in fondo patrimoniale alla disciplina codicistica (che in presenza di figli minori richiede l’autorizzazione del Tribunale che può essere concessa solo in caso di necessità o utilità evidente) e che, al contrario, nessun vincolo formale deve ritenersi posto al trustee quanto alla possibilità di porre in essere eventuali futuri trasferimenti dei beni conferiti, viene ritenuto che il trust sia istituto privo «di quelle garanzie che, una volta scelta l’opzione del fondo patrimoniale e non adottata la clausola derogatrice consentita dall’inciso iniziale dell’art. 169 c.c. (…) vengono apprestate dal regime autorizzativo vincolato di cui alla richiamata norma codicistica».

 

 

* * *

 

       Un caso di un certo interesse è quello risolto da Trib. Milano, 20 ottobre 2002, in una fattispecie veramente caraterizzata (una volta tanto!) da un elemento di (reale) estraneità. Nella specie il giudice italiano, ritenutosi dotato di giurisdizione e facendo applicazione della legge inglese, ha rimosso dalla posizione di trustees entrambi i coniugi, sostituendoli con due professionisti.

Il trust era stato costitutito in Gran Bretagna su beni ivi situati e per disposizione del giudice inglese che si era occupato del divorzio tra le parti. La domanda giudiziale era stata proposta dall’ex marito, che aveva chiesto la decadenza dalla posizione di trustee della ex moglie per conflitto di interessi con le beneficiarie (le figlie).

 

* * *

 

La prima applicazione pratica di cui si abbia notizia dell’art. 2645-ter c.c. alla crisi coniugale è costuita da Trib. Reggio Emilia, 26 marzo 2007, in Guida al dir., 2007, n. 18, p. 58, con nota di Tonelli.

 

Il Tribunale ha qui deciso su di un’istanza ex art. 710 c.p.c. di modifica delle condizioni di una separazione consensuale. In particolare i coniugi volevano sostituire il versamento d’un assegno mensile da parte del marito, pari ad € 400,00, per il contributo al mantenimento dei figli, con il trasferimento della proprietà per intero o per quota di unità immobiliari, non già ai figli, ma alla moglie, ancorchè a titolo di contributo al mantenimento dei figli.

E’ lo stesso collegio a suggerire ai coniugi la soluzione che fa perno sull’art. 2645-ter c.c.

I coniugi decidono quindi di seguire il suggerimento del collegio e stabiliscono, come clausola aggiuntiva rispetto a quella che prevede i trasferimenti immobiliari a vantaggio della moglie, quanto segue:

Sulla base dei predetti accordi il tribunale emette dunque il seguente dispositivo:

Ora, a prescindere dalla circostanza che il tribunale, riconosciuta la rispondenza della clausola all’interesse della prole, avrebbe dovuto, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, dichiarare non luogo a provvedere sull’istanza, dal momento che è ormai pacificamente assodato che le intese modificative delle condizioni della separazione, anche per ciò che attiene alla gestione del rapporto con i figli minori, sono sottratte al procedimento ex art. 710 c.p.c. e non necessitano di alcuna forma di omologazione, è interessante soffermarsi brevemente sulle distinte prese di posizione della decisione relativamente a varie questioni connesse all’applicazione dell’art. 2645-ter c.c.

 

(a) Sulla forma:

 

(b) Sull’ammissibilità del soddisfacimento dell’obbligo di mantenimento della prole mediante una prestazione una tantum o mediante un trasferimento immobiliare:

Ragionamento, questo, assolutamente condivisibile (tanto più che è tratto dai miei scritti…). Peccato che però, nel caso di specie, non si discutesse di una translatio dominii in favore della prole, ma della madre…

 

(c) Sulla meritevolezza degli interessi perseguiti:

Al riguardo si citano svariate decisioni di legittimità, tra cui le seguenti:

Da notare che la giurisprudenza richiamata concerne sempre ipotesi di trasferimento di diritti su immobili alla prole. In ogni caso, effettuata la necessaria «correzione di tiro», io non contesto nel modo più assoluto che sia contrario all’interesse della prole anche il trasferimento in favore del solo altro genitore, purchè – quando si vuole fare assolvere a tale trasferimento la funzione di sostituzione dell’assegno per la prole – siano apposti vincoli del genere di quelli individuati dal tribunale nella sentenza in esame.

 

In altre parole l’art. 2645-ter c.c. consente una nuova categoria di trasferimenti: quelli in favore del coniuge o ex tale (cioè dell’altro genitore), ma nell’interesse della prole, quale contributo al mantenimento della prole stessa (minorenne o maggiorenne ma non autosufficiente), laddove sino ad ora la giurisprudenza si era occupata di atti traslativi in funzione di contributo al mantenimento della prole, ma disposti in favore della prole medesima.

 

(d) Sulla causa:

Abbracciata, dunque, la tesi dello scrivente sulla causa tipica dei contratti della crisi coniugale, la decisione passa a constatare che la predetta impostazione risulta condivisa da recenti prese di posizione della Corte Suprema:

 

(e) Sull’interesse della prole:

 

(f) Sulla garanzia rispetto agli atti di esecuzione (con confronto rispetto al fondo patrimoniale):

 

(g) Sulla ulteriore garanzia, rappresentata dal vincolo di non alienabilità (ma non era superfluo, alla luce dell’opponibilità verso i terzi subacquirenti del vincolo di destinazione, legata alla trascrizione di tale ultimo vincolo???):

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